La necessità della musica

Se in platea c’è solo Dio

 Se in platea c’è solo Dio  QUO-084
14 aprile 2021

Sulla musica al tempo del coronavirus


La nostra epoca è diventata estremamente pragmatica. Valore e senso vengono riconosciuti solo a ciò che procura un vantaggio immediato, conseguenze palpabili o l’applauso del pubblico. Per cui oggi è possibile ascoltare — e, con grande sorpresa, anche da parte di sacerdoti — affermazioni secondo le quali una messa senza la partecipazione della gente non ha senso; o le lamentazioni dei musicisti che patiscono l’assenza di reazioni da parte del pubblico e affermano che suonare in una sala vuota, solo per le telecamere, è come suonare al muro. Riconosco in ciò i segni evidenti di un certo narcisismo ed egoismo, derivanti innegabilmente dal fatto che si tratta di fenomeni presenti in maniera latente nel nostro mondo in generale.

In qualità di organista sono attivo da quasi trent’anni e mi sono trovato ad accompagnare la liturgia sia nella chiesetta di qualche paesino che in una cattedrale. Mai, però, ho avuto la sensazione che quel mio suonare avesse minor valore o fosse inutile se suonavo per un gruppo poco numeroso di persone, o su un harmonium in qualche sperduta cappella, o in una chiesa vuota. Nel suo saggio Organo e liturgia (Orgel und Liturgie, Münchener Theologische Zeitschrift, 64, 2013, 76) il gesuita Friedhelm Mennekes scrive: «L’artista dietro alla sua tastiera (...) non deve ricercare il piacere del pubblico. Ciò richiede coraggio e quella fiducia in se stessi che non ambisce all’applauso». Ritengo che in ciò consista il nocciolo della questione. Sia per un artista che operi all’interno della liturgia come anche per tutti gli artisti in generale.

Da qualche parte padre Špidlík afferma che veniamo al mondo perché Dio ha in serbo per noi un compito concreto, una missione. Non avviene che prima noi si nasca e soltanto dopo Dio pensi a cosa fare di noi. La nostra felicità consiste nell’individuare e realizzare tale missione. Me ne rendo conto sempre di più proprio durante il mio lavoro con gli allievi del corso per organisti. Sento che nessuno di loro segue quel corso solo per caso, e che invece ognuno ha un suo compito concreto e una sua missione insostituibile. Nei luoghi dove svolgono il loro lavoro, gli organisti diventano spesso gli ispiratori e coloro che preservano la vita spirituale delle parrocchie. Il coro della chiesa e la comunità dei musicisti attorno alla cantoria sono non di rado una delle poche comunità vive che si riuniscono e pregano con regolarità nelle parrocchie. Perciò, in tale spirito, considero l’educazione degli organisti di estrema importanza.

Non cessa poi di sorprendermi il fatto che Dio, con quel suo particolare senso dell'umorismo, scelga a tal fine persone non di rado e già a prima vista alquanto inadatte e conceda loro i suoi doni per suscitare in lui la gioia. Sono sempre più fermamente convinto che sovente lo faccia solo per suo piacere personale.

Se tutto questo lo mettiamo poi in relazione con la nostra professione di organisti, è allora chiaro che con la nostra attività noi rendiamo un servizio anche alla comunità dei credenti, benché oserei considerare la cosa solo come un “prodotto secondario” di ciò che prima avevo definito una missione. Conosco un organista che era andato ad eseguire un concerto, programmato nel periodo primaverile dalla crisi da coronavirus, e che non si era potuto svolgere. Lui però l’aveva ugualmente eseguito e l’assenza degli ascoltatori non l’aveva percepita come una mancanza che potesse sminuire il valore del concerto. Al contrario: sentiva la gioia interiore che Dio gli faceva sentire per il piacere che lui Gli aveva procurato.

È ovvio che l’interazione tra interprete e ascoltatore sia importante. Ma l’affermazione secondo la quale una prestazione artistica senza ascoltatori perda di significato mi permetterei di considerarla superficiale. La musica non è una semplice sequela di suoni ma, in primo luogo, una maniera di comunicare, una lingua specifica e, allo stesso tempo, universalmente comprensibile. Secondo la mia esperienza, durante l’esecuzione l’interprete stabilisce sì un contatto con l’ascoltatore, ma il suo è un semplice ruolo di mediazione. Lui cerca di comunicare ciò che, con la sua opera, il compositore aveva voluto dire. Ma anche quest’ultimo non è che un mediatore di ciò che gli ha suggerito lo Spirito Santo. Perché, affinché un’opera sia realmente artistica, ci dev’essere la presenza dello Spirito Santo. In questo senso, attraverso il compositore e l’interprete, colui che parla all’ascoltatore è Dio stesso. Se poi l’ascoltatore non è presente, l’unico ascoltatore diventa Dio. E in questo modo il cerchio si chiude. Quel cerchio che si chiama preghiera. Perché, come affermano i Padri della Chiesa: «Quando preghiamo, non siamo noi a pregare, ma è lo Spirito Santo a pregare in noi». È Dio a pregare rivolto a se stesso. Si realizza quindi l’ininterrotta conversazione all’interno della Santissima Trinità. E noi possiamo partecipare alla comunicazione divina, che costituisce un dono e un’offerta straordinari.

Il cerchio della preghiera non funziona però sempre. Nella maggior parte dei casi l’anello debole risulta essere l’interprete che, con la sua esecuzione, vuole mostrare le proprie abilità tecniche e il proprio virtuosismo piuttosto che mediare all’ascoltatore il contatto con Dio, vivo nella musica eseguita. Il professor Jaroslav Vodrážka, geniale improvvisatore all’organo e mistico, diceva: «Il maggior ostacolo è il nostro Io». E questo vale sia per la musica che per la vita spirituale. Lì dove siamo pieni di noi stessi, Dio non riesce più a entrare («Il Signore Iddio è discreto, lui non cerca d’intrufolarsi» diceva Vodrážka).

Nella mia attività di organista mi capita, in questi ultimi tempi, di riscontrare nelle nostre chiese un sorprendente calo dei credenti. Mi sarei invece aspettato che, a un periodo nel quale non era stato possibile partecipare alle funzioni religiose, facesse seguito l’anelito all’incontro vivo col Cristo presente nell’eucaristia. Viene con forza da pensare a qualcosa di simile a un raffinamento, a una cernita. Allo stesso tempo, però, appaiono anche persone che ostinatamente ricercano qualcosa di più profondo, di più certo, di più duraturo di quanto per la maggior parte offra la nostra società. Mi domando che tipo di certezza essa in realtà offra. Vita e salute. Ovviamente una vita con la v minuscola. Qualcosa davvero di molto instabile.

In tempi neanche tanto lontani, in pubblico non si parlava minimamente della morte, era un tabù, si faceva finta che non esistesse. Oggi della morte si parla quasi dovunque. E la si utilizza come uno spauracchio. Forse anche per noi cristiani la paura della morte incomincia a celare il senso della nostra vita, quella vita con la V maiuscola che non termina con la morte, al contrario: la morte è la porta d’accesso alla vera realtà («questo mondo è concreto, ma Dio è una realtà maggiore» diceva Vodrážka).

Non riesco a trattenermi dal pensare che la maggior parte della società si trovi in una disposizione d’animo come ottenebrata. Che contrasto, questo, col tempo dell’Avvento appena trascorso! Col tempo della gioia.

Tale stato d’animo è espresso con fedeltà dai canti, così caratteristici per questo tempo liturgico: i canti mattutini dell’Avvento. Grosso modo in quest’ultimo decennio si è sviluppata un’ondata di entusiasmo per gli inni dell’Avvento. Si è assistito a una risurrezione dell’antica tradizione, dei canti del xvi e xvii secolo, la cui interpretazione non è offuscata da sedimenti post-romantici, per cui l’originario carattere gioioso di tali canti può pienamente sbocciare. Quale consolazione è allora il poter percepire nella musica, non solo con la ragione ma anche col cuore, le parole dell’apostolo: «Rallegratevi nel Signore, sempre; ve lo ripeto ancora, rallegratevi» (Filippesi, 4, 4).

Anche questo fatto conferma, ancora una volta, che non è affatto indifferente che cosa si suoni durante la liturgia, e come. Allo stesso modo saranno da prendere con riserva le parole “chi canta prega due volte”. Ritengo che il livello, e soprattutto la profondità, della musica eseguita durante la liturgia rifletta molto fedelmente la profondità della nostra vita spirituale e il modo in cui la viviamo. La motivazione del nostro operato è determinante in ogni singolo aspetto della nostra vita.

E se serviamo Dio, già solo per questo essa è ancora più importante. Molti organisti amano la loro attività. Le motivazioni sono però differenti e si tratta più che altro di un insieme di motivazioni diverse. In qualcuno prevalgono i motivi economici, in un altro è importante mostrare la propria abilità, prevale l’Io. Conosco colleghi che «se ne stanno a suonare» solo perché la cosa li diverte e dà loro appagamento, oppure offre loro un momento di relax. Si tratta certo di motivazioni del tutto legittime, ma ritengo siano insufficienti se isolate. In esse va ad imprimersi il già più volte ricordato egoismo che non vuole rimandare a Dio, centro di ogni agire durante la liturgia, bensì indicare se stessi.

Qualcuno aveva chiesto a padre Špidlík perché l’uomo prega. Lui gli aveva risposto con una domanda: e perché l’usignolo canta? La risposta era: perché è stato creato per questo.

Perché allora suonare in chiesa durante la liturgia, e perché poi fare musica in generale? La musica è uno strumento di comunicazione alquanto specifico. Esiste solo quando la si fa, quando viene suonata. Musica non sono le note, gli strumenti, coloro che suonano. Non lo è neanche un’incisione, un cd : questa è solo la registrazione di una musica che un tempo era stata viva. La musica esiste solo nel momento preciso in cui viene eseguita. È del tutto immateriale, irripetibile, sempre originale ed unica, continuamente nuova e un po’ diversa, sotto molti aspetti affine alla preghiera. Per questo la musica, in quanto strumento di comunicazione, è così adatta a farsi preghiera e ad esprimere le realtà più profonde.

Il momento più bello nell’arte dell’interpretazione, e quello che più arricchisce, è a mio avviso il fatto che l’artista può creare ogni volta una realtà nuova. Vedo in questo la possibilità di partecipare all’opera divina, ad una creativa creazione comune del mondo, alla quale tutti noi siamo chiamati. Ritengo che sia questa una delle forme più perfette di preghiera.

E così come l’usignolo canta, perché così è stato creato, allo stesso modo l’autentico organista suona perché non può essere altrimenti. Perché Dio lo ha chiamato alla vita affinché agisca in questo modo.

di Miroslav Pšenička