Padri all’attacco contro il teatro

Rammolliti e dissoluti

14 aprile 2021

Ora che i teatri sono chiusi causa covid e lo spettacolo dal vivo, come il cinema, arranca per la coatta inattività, viene in mente un’altra fase critica, molto remota ma viva nella memoria storica, vissuta dall’intrattenimento. Parlo dell’attacco, martellante e universale, dei Padri della Chiesa contro ars dramatica e spectacula. Un fuoco di sbarramento che contribuì al tramonto del teatro classico, non più in auge nel medioevo.

È difficile trovare un tema davanti a cui gli autori cristiani antichi appaiano concordi come lo sono nel criticare e condannare il teatro e le rappresentazioni drammatiche. L’accordo è totale fra scrittori e predicatori che intervengono in materia, e ciò a prescindere sia dal sottogenere — commedia, mimo, tragedia... — ogni volta considerato, sia dalla distanza spaziotemporale fra i Padri. Vediamo allora chi sono questi nemici della skené e perché gli fanno guerra.

Apre il fuoco Cipriano che nell’Ad Donatum dopo aver demonizzato gli spectacula circensi e gladiatori, dove «il sangue soddisfa la libidine di occhi impietosi» e «si uccide un uomo per divertirne un altro» ( vii ), estende la denuncia al teatro. Chi rappresenta una tragedia «verseggia sui delitti antichi e rinnova scene di orrore di parricidi e incesti». Sul palco «i crimini diventano azioni esemplari», col che «la gente viene corrotta dai gesti dei commedianti» e il talento di un attore è applaudito «secondo la sua sozzura» ( viii ). Ecco perché al vescovo Eucrazio, che lo consulta sulla disciplina da adottare con un attore, Cipriano risponde che ostinandosi a recitare quello «continuerebbe con disonore a esercitare la sua arte» e sarebbe «un maestro… non nell’educare i giovani ma nel perderli». Uno così, e chiude, «ritengo non sia conveniente… accettarlo nella nostra comunione» (Lettera 2).

Gli fa eco il compatriota Tertulliano. Che nel De spectaculis tuona: «Ciò ch’è della scena, e riguarda il gesto o la flessione del corpo, consacra la dissolutezza a Venere e Libero, rammolliti una dal sesso e l’altro dal vino». Perciò, conclude col suo radicalismo, «tu odierai, cristiano, tutto ciò di cui non puoi non odiare gli autori» e asterrai gli «organi eletti, occhi e orecchie, dalle attrattive idolatre» (ed. E. Castorina, 1961). E in tema di occhi e orecchie leggiamo Girolamo. «Se uno si diletta dell’agilità degli istrioni… e di altre cose simili…», scrive nel Contro Gioviniano, «la libertà dell’anima è catturata e… “la morte è entrata dalle vostre finestre” (Geremia 9, 20)», gli occhi appunto. Parimenti «con le arguzie delle commedie e dei mimi, tutto ciò che passa per gli orecchi fiacca la virilità della mente». La percezione visivo-uditiva di una messa in scena come fonte di corruzione. È la denuncia ripresa, forte e chiara, da Salviano di Marsiglia, dove si nota pure la confusione tra fiction e realtà. Si legge infatti nel De gubernatione Dei: «Solo le indecenze delle rappresentazioni sono tali da rendere colpevoli e chi agisce e chi assiste. Infatti se (il pubblico) davanti a queste cose le applaude e le guarda con piacere, le compie con la sua vista e il suo consenso (corsivo nostro)».

Agostino rifiuta pure lui sì il teatro, ma lo fa da par suo, con apertura (pur disapprovando), intelligenza e con la consueta conoscenza-esperienza del cuore umano. Memorabile l’incipit del capitolo iii delle Confessioni. Partendo al solito dal suo vissuto ricorda il fascino esercitato su di lui dalle recite, «piene di immagini delle mie angosce e del mio fuoco». Dopo di che, precorrendo la psicologia moderna, l’autore rileva la contraddizione antropologica per cui «soffrire è proprio quello che lo spettatore vuole, e questa sofferenza gli è un piacere». E che altro è tutto ciò, si chiede, «se non la nostra follia?». Da qui l’inutilità e anzi il danno recato alla coscienza dalla finzione scenica come irrealtà e fonte di alienazione. Mentre l’uomo può essere se stesso e vivere rettamente solo nella realtà e nella verità della vita e del mondo.

Diciamolo, i Padri non li seguiremmo su questa via, soprattutto perché confondono finzione e realtà, esistenza e arte. Come mai? Eppure letteratura e filosofia classiche erano state discretamente accolte dalla cultura patristica. Ma il teatro era altro; era l’ambiente e il simbolo dove si concentrava lo zoccolo duro del paganesimo, era spazio e fonte di corruzione, immoralità, politeismo idolatra, era “teatro” (davvero!) di disvalori, comportamenti e modelli inaccettabili e denunciati dai cristiani. Che perciò lo attaccarono, causandone, ma non si deve solo a loro, la lunga eclisse medievale. Ma esso riapparirà, grazie ai cristiani, con il dramma sacro del basso medioevo. Invece la rinascita del teatro classico tentata nelle corti rinascimentali non avrà futuro. Commedia dell’arte e riforma goldoniana vengono più da Iacopone da Todi che da un Menandro non rinato.

di Mario Spinelli