«Agar e Sara» di Simona Riccardi

In prima persona

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14 aprile 2021

È un romanzo di voci. Un romanzo di intensità che non solo grazie al calore millenario e fondativo che la vicenda biblica ancora diffonde nei secoli riesce a portarci dentro una storia talmente emblematica da sfidare la penna a raccontare lasciando i protagonisti liberi di far trasparire se stessi. Agar e Sara. Madri nella fede (Milano, Paoline, 2021, pagine 152, euro 12), di Simona Riccardi è quindi un romanzo di prime persone, al cospetto di una vicenda unica ma che potrebbe essere letta come quella di tante donne e che quindi ha anzitutto il merito di riportare il lettore a una confidenza con la Bibbia, un rapporto di immedesimazione che spesso in testi di questo genere va irrimediabilmente perduto o, forse intentato, ritenuto superfluo.

Il romanzo è invece sfrontato e diretto, concepito come una sorta di piece teatrale. Come fosse da recitare dal vivo, come se le due protagoniste dovessero alternarsi sulla scena non solo a esprimere il proprio punto di vista su una vicenda che le accomuna, ma perché la pretesa unicità della propria storia è complementare all’altra in un intrecciarsi di situazioni eventi, pulsioni, desideri che non possono fare a meno di contenere lo sguardo, il tessuto intimo della controparte.

Ed è proprio da qui che Simona Riccardi parte per affrontare a viso aperto la sua scommessa che a chiunque si cimenti con una qualsiasi della “Storia delle Storie” potrebbe sembrare un azzardo. Il testo punta le sue risorse lessicali e stilistiche sul piano dell’intensità e rischia: rischia immagini fulgide, aggettivazioni cariche di rimandi paradigmatici, pensieri che sfidano le profondità dell’animo, quelli che al giorno d’oggi spesso sembrano patrimonio retorico di altre epoche e che evitiamo a cuore troppo leggero di tenere in conto.

È la Bibbia, dice invece in trasparenza il testo, la Bibbia ci ricorda che ogni pensiero, ogni azione è il nostro qui e ora dove si gioca la nostra umanità. Tutta. Senza compromessi. E le due donne se la giocano eccome la propria umanità: questo è uno dei pregi del romanzo. E noi, leggendo, non possiamo non empatizzare con la insolubile alterità della situazione, del pensiero, dell’essere e della vita delle due protagoniste in competizione nell’atto generativo per eccellenza: quello della responsabilità tutta naturale e assieme tutta metafisica di dare la vita.

Agar e Sara vogliono profondamente questo privilegio per sé e mentre sanno di donare ad Abramo la discendenza sanno anche che quel dono è comunque parte di sé stesse e che nessuna circostanza potrà estirpare questa certezza ambiguamente meravigliosa che è generare dalla propria carne un pezzo di sé che non ci apparterrà più continuando ad appartenerci, segno sublime di quella ambiguità che è destino per sempre dell’umano. Vivere nella perfetta incompletezza che solo un Altro alla fine potrà colmare: quell’Altro che solo possiamo pregare senza poter intenderne le reali intenzioni.

Così ci fa quasi tenerezza la voce conclusiva che Riccardi mette in bocca ad Abramo, padre sì di tutti i credenti ma che resta nella sua grandezza un comprimario opaco nell’atroce virulenta irresolubile diatriba del sentimento delle due donne; lui destinato a essere strumento di Dio, lo stesso uomo che si spingerà docilmente fino a quasi sacrificare quel figlio come olocausto e che per sempre resterà lui simbolo dell’enigma della fede: Abramo si affida e avrà il premio di una discendenza come la folla delle stelle del cielo, ma le due donne resteranno il segno della grandezza riottosa e irriducibile dell’umano che a Dio, in fondo, piace forse anche di più.

di Saverio Simonelli