La riflessione

Sulla sete

He Qi, «Gesù e la Samaritana»
13 aprile 2021

Tra la minaccia dell’abbandono e l’altro come promessa


Necessaria, ma limitata, l’acqua — lo sappiamo — è al centro di controversie tra gruppi, organizzazioni, Paesi fra i quali la sete umana di affermazione scatena sempre nuovi conflitti. Affermarsi, nella lotta per la vita, significa letteralmente porre se stessi come una parola udibile: le nostre seti sono sete di riconoscimento. Esistere per qualcosa e per qualcuno.

Quando venne per Agnes Gonxha Bojaxhiu il momento della seconda chiamata, per un intero viaggio sentì rimbombarle in cuore la parola di Gesù sulla croce: «Ho sete». Era la notte del 10 settembre 1946. Allora le voci e gli odori che ogni giorno salivano nel suo collegio di Calcutta dallo slum di Motijhil, uno dei più miserabili nella megalopoli indiana, provocarono la sua personale caduta da cavallo. Come a Saulo sulla via di Damasco, infatti, sul treno diretto a Darjeeling la parola degli scartati si fece ascoltare da suor Teresa come parola del Signore. Egli la chiamava identificandosi nell’ultimo degli ultimi: «Ho sete». Fu allora che per questa capace insegnante di storia e geografia, dedita a ragazze benestanti, la città — quella appena oltre il muro di cinta — iniziò a esistere. Uscì e fu un venire alla luce, immergendosi nelle tenebre. Tenebre dell’ingiustizia, ma in seguito anche dello spirito: «Di te a sete l’anima mia come terra deserta, arida senz’acqua» (Salmi 62, 2).

Se, da quel momento, madre Teresa volle scrivere «ho sete» in ogni casa che andò aprendo qua e là nelle metropoli di tutto il mondo, è perché colse come il groviglio umano si dipani solo riconoscendo di quanta mancanza siamo intrisi. Il crocifisso ha condiviso un vuoto: «Ho sete». Da lì in poi non occorre più bluffare e negare la crepa presente in noi. Essa ci inquieta, ci ferisce, ma può anche farci incontrare.

Come quando, da bambino, nel cuore della notte chiamavo papà: «Ho sete». Allora l’angoscia poteva sciogliersi senza bisogno di parole: al fruscio delle lenzuola dalla camera accanto, all’accendersi di un abat jour e nei passi di una premurosa presenza, l’anima trovava quiete. Era la stessa cura di chi disseta un anziano o bagna le labbra a un morente. Nel corpo siamo noi a voler essere custoditi. Se in pochi istanti, neonati, sappiamo risalire al seno materno, lungo un’intera vita a dissetarci sarà solo il prossimo, l’altro come promessa. La minaccia dell’abbandono, all’opposto, è quanto più ci abbruttisce. Basti tornare al dies horribilis di Israele nel deserto, quello della più amara insinuazione e di un arido cinismo: il popolo mormorò contro Mosè e disse: «Perché ci hai fatto salire dall'Egitto per far morire di sete noi, i nostri figli e il nostro bestiame?» (Esodo 17, 3). La fretta gioiosa, il passo baldanzoso della liberazione si arena nel deserto di pietre dove il grido degli assetati ha un preciso contenuto: «Il Signore è in mezzo a noi sì o no?» (Esodo 17, 7).

Il dramma biblico si sviluppa come travaglio della fede. Presenza, compagnia, alleanza: sembra non bastare mai la credibilità di Dio, tanto è radicata la paura di perderlo e, perdendolo, di perdersi. I peggiori istinti umani si scatenano a partire da questo abisso vorticoso in cui si dubita persino di una mano tesa. Ed è forse così perché troppe mani tese tradiscono, violano il patto, esercitano una presa che spoglia e rapina.

Difficile, per Amore e Fedeltà, farsi strada in un mondo ferito da tante seti scatenate. Difficile, ma non impossibile. «Ascoltate oggi la sua voce, non indurite il cuore come a Meriba» (Salmi 95, 8): il lavoro di Dio, che riverbera in quello delle suore di madre Teresa, così come nell’alzarsi di mio padre in piena notte e nel farsi prossimo di un familiare al moribondo, mira a che non si indurisca il cuore.

«Vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne» (Ezechiele 36, 26): il cardinale Martini definiva questa la pagina più importante del Primo Testamento, mentre il Nuovo inizia nel frantumarsi del cuore che la mattina di Pentecoste sperimentano, in ascolto di Pietro, gli abitanti di Gerusalemme. È di loro, che per ignoranza l’avevano condannato, che il Crocifisso aveva avuto sete. Risorto, invece che rappresaglia, l’offerta di un’alleanza nuova.

«Non avrai mai più sete» (cfr. Giovanni 4, 14) aveva detto alla Samaritana. La brocca della donna, dimenticata al pozzo, fu solo l’anticipo di una liberazione dalla schiavitù delle seti negate e sepolte. È l’umanità ad aver trovato il suo sposo, quel bene che non cancella la crepa, ma ne fa «una sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna». Così, lo stesso abisso che prima tutto angosciosamente risucchiava e distruggeva, ora diffonde purezza e fecondità. Dio infatti non spegne il desiderio, perché è desiderio. In lui non si ha più sete, ma senza fine ci si disseta. Le immagini contano più dei concetti, la narrazione più delle definizioni: nella Bibbia lo scarto è tra la paura di morir di sete — minaccia che ci fa mostri e nemici — e il piacere di degustare in libertà acqua purissima, latte e miele, vini eccellenti, vini raffinati. Ammettiamolo. Se abbiamo dato poca attenzione e circondato di scarsissimo onore il suo «bevetene tutti», ancor meno importanza ha sin qui ricevuto una delle sue più delicate promesse: «Io vi dico che d’ora in poi non berrò di questo frutto della vite, fino al giorno in cui lo berrò nuovo con voi, nel regno del Padre mio» (Matteo 26, 11). Nel sangue, è l’intera sua vita a dissetarci. Eppure, la nuova ed eterna alleanza supera i confini della carne e del sangue, ma non il gusto di trovarsi a tavola e di bere nuovamente insieme.

La sete non è allora maledizione, ma marchio di provenienza, carta d’identità di una patria in cui si vivrà realmente insieme. Non si tratta di placarla, ma del mutarla di segno.

di Sergio Massironi