Prove di dialogo con Dio “ascoltando” la sete, nei versi di una poesia o su di un palcoscenico

Le domande di Chandra

 Le domande di Chandra  QUO-083
13 aprile 2021

Assetati di immagini i personaggi  in scena finiscono  per non riconoscere più cosa li fa vivere


Tu «mi regali vino. Ne ho troppo, di vino. Se vuoi farmi felice, regalami la sete». Questi tre versi — attribuiti ad Agnolo da Poliziano ma rielaborati in molte versioni diverse — che rimbalzano da un social network all’altro, copiati in mille post, forti della loro folgorante brevità, sono forse la recensione più adeguata, più efficace e calzante della poesia di Chandra Livia Candiani; lo scatto capace di catturare l’essenza di un’immagine, come nelle foto eleganti e oniriche di Giovanni Gastel. La domanda della sete 2016-2020 (Einaudi, 2020) è una delle raccolte più note della Candiani, scaturita da un leit-motiv che non abbandona mai la sua ispirazione, il “regalo” della mancanza, che l’arte dona a chi la frequenta e il privilegio di lasciarsi abitare dal silenzio, non semplice assenza di rumore ma «cosa viva» (è il titolo di una raccolta di poesie del 2018) da cui lasciarsi guardare.

Fare spazio «intorno ai gesti ordinari — scrive Chandra — dargli una stanza, li fa brillare, permette che aprano un varco nell'oscurità in cui di solito viviamo, nel nostro quotidiano sonno. Allora, pian piano, si ricevono le visite della consapevolezza: sono i miracoli del noto». Rilke diceva che il primo compito della poesia è rendere invisibile il visibile. «Sembra un concetto quasi capovolto rispetto al nostro pensiero — continua Candiani, rispondendo alle domande di Sabrina Penteriani — Invece è proprio così: il linguaggio poetico può toglierci dall’abitudine dello sguardo, seminare ovunque un senso di miracolo e di meraviglia». Accorgersi di avere “fame” di significato quando la percezione ordinaria di noi stessi è di essere sazi, accorgersi di avere sete quando tutto invece sembra bastare è frutto di un allenamento all’ascolto che la poesia è capace di propiziare.

«Che cosa vuoi corpo? — scrive la Candiani in uno dei componimenti più belli di La domanda della sete — Piccolo cuore notturno / che mi tira per la manica / spella il sonno / dimmi di cosa manchi / parlami con una testa diversa: / qualcosa è sparito / tu / sei accaduto / all’insaputa di me / proseguendo. / Le stelle fisse / un cane vivo / le spalle alla distanza».

C’è un vuoto che ci abita, quasi “all’insaputa di noi”, ma in modo tenacemente reale. «Di che è mancanza questa mancanza / cuore — scrive Mario Luzi in Sotto specie umana — che a un tratto ne / sei pieno? / di che? / Rotta la diga / t’inonda e ti sommerge / la piena della tua indigenza… / Viene, /forse viene, / da oltre te / un richiamo / che ora perché agonizzi non ascolti. / Ma c’è, ne custodisce / forza e canto / la musica perpetua ritornerà / Sii calmo».

La funzione della poesia, in fondo, è proprio questa, ripete la Candiani, «mantenere in vita la parola e preservarla. Mario Luzi diceva che è compito della poesia far risorgere la parola». L’acqua è per eccellenza simbolo di vita, ma anche della miopia umana nel dissetarsi con risposte illusorie; basti pensare alla comparazione del profeta Geremia, «il mio popolo ha abbandonato me, sorgente di acqua viva, e si è scavato cisterne piene di crepe».

Si riparte sempre dai desideri più concreti, per smascherarne l’inadeguatezza; è questo il metodo seguito anche dal “poli-monologo” Sete, scritto da Walter Prete e diretto da Lorenzo Parrotto, pluripremiato dalla critica, che ha debuttato a Lecce nel luglio scorso. «E lei ? Un sogno lei ce l’ha? Uno yatch, un’amante, un’idropulitrice … Prima di cominciare, mi parli del suo sogno» dice allo spettatore Giorgio Sales, che dà vita a un intero caleidoscopio di personaggi: dal ristoratore all’imprenditore, dall’influencer al trader finanziario e al critico d’arte, in un gioco al rilancio in cui vince chi riesce ad aumentare di più il valore di un bene primo come l’acqua, trasformandolo in un’icona del lusso.

Una scrittura a cerchi concentrici in cui gli stessi personaggi tornano ciclicamente sempre più inebriati dal crescere del desiderio e galvanizzati dall’incapacità di avvertire il bisogno.

Assetati di immagini, finiscono per non riconoscere più la vera sete, quella legata alla conservazione della vita, che resiste ad ogni tentativo di farsi ridurre in cosa. «Ed ecco l’acqua: bene indispensabile, primario — scrive Parrotto nelle note di regia — Bene che deve, dovrebbe, essere alla portata di tutti. E così come Dio, che nella Genesi separa la luce dalle tenebre, così il nostro eroe separa un bene come questo dal resto del mondo, “stabilendo un valore”: in questo caso il valore è dato dalla bottiglia, da ciò che contiene e racchiude l’acqua (...) Noi, da parte nostra, non vogliamo trovare il colpevole. Vogliamo raccontare ciò che può cambiare radicalmente una vita».

di Silvia Guidi