CHE MONDO CORRE
Conversazione con l’economista Laura Pennacchi

La vera rivoluzione
è tornare a parlare del lavoro

 La vera rivoluzione è tornare a parlare del lavoro La vera rivoluzione è tornare a parlare del ...
13 aprile 2021

Se è vero, come sostiene lo storico Adam Tooze, che “la devastazione pandemica è la prima grande crisi dell’antropocene”, la strada per la ricostruzione non può che ripartire dall’uomo. E dai suoi, insopprimibili, bisogni relazionali. Del resto, anche la rivoluzionaria Rosa Luxemburg spiegava che «la cosa principale è essere buoni, semplicemente essere buoni, è ancora più importante che avere ragione…». Di più, scrive l’economista Laura Pennacchi nel suo libro “Democrazia economica. Dalla pandemia a un nuovo umanesimo”, la riscoperta dell’uomo come relazione va considerata come «la più importante fatta dal pensiero femminista», da Carol Gilligan a Joan Tronto, a Judith Butler. Pennacchi, più volte eletta nel parlamento italiano, sottosegretario al Tesoro nel primo governo Prodi, oggi dirige la scuola “Vivere la democrazia, costruire la sfera pubblica” della Fondazione Basso e coordina il Forum Economia nazionale della Cgil. Nel libro citato (Castelvecchieditore, Roma, 2021, pagine 119, euro 15), da poco uscito in libreria, il lavoro ha una parte importante. Ma, come annuncia la stessa autrice già nella copertina, «è in gioco molto di più: la possibilità di portare l’analisi e la prassi al cuore in difficoltà del capitalismo». Una brillante analisi insieme teorica e pratica, che Laura Pennacchi illustra in questa intervista.

Quindi, tutto parte dalla persona come essere relazionale, dalla libertà come interazione, dalla democrazia che domanda un “essere con gli altri” e quindi una politica sovraordinata all’economia. Serve in sintesi uno “Stato strategico”, come lei lo definisce. Un inciso: nel suo libro lei sembra non prendere in esame la classe politica. Che ruolo ha?

Per definizione dovrebbe avere un ruolo importantissimo, perché lo Stato strategico si traduce in personalità rilevanti che assumono leadership, che si facciano carico delle grandi questioni e le facciano diventare dominanti, modificando anche il linguaggio e il lessico, cosa essenziale. C’è un grandissimo lavoro da fare sui valori, sulle energie morali, sulle fonti della normatività sociale…quando parliamo di classe politica dobbiamo parlarne in questi termini. È un parlarne inscindibile dalla sollecitazione delle energie della società civile, dell’intero complesso della cittadinanza, della sfera pubblica, come diceva Hannah Arendt, che nel libro cito spesso, come Habermas e il suo “patriottismo costituzionale”. Non possiamo parlare di classe politica come se parlassimo soltanto di persone, di personalità politiche…C’è anche quel problema, certo, e purtroppo oggi viviamo una fase di carenza di questo tipo di personalità e di leadership.

Passando all’altro campo, quello del mercato, lei afferma che serve anche una nuova “teoria dell’impresa”, e fa appello a una borghesia illuminata, a imprenditori illuminati. Questa base oggi esiste?

Penso di sì, penso che esista. E che sia sempre esistita. Oggi magari si è inabissata, ha assunto un po’ una forma carsica, ogni tanto riemerge. Io ho vissuto a Rosignano, a Livorno sud: lì c’era lo stabilimento Solvay… All’inizio del ‘900, quando crearono le fabbriche, tirarono su anche villaggi molto ben attrezzati, con l’acqua, l’elettricità, le scuole e gli asili nido. Ma anche il teatro, perché gli operai potessero elevarsi spiritualmente…Bisognerebbe tornare a questo tipo di imprenditoria.

Nel libro lei cita come esempio Olivetti e anche l’epoca in cui gli operai la domenica portavano i figli a visitare la fabbrica dove lavoravano…

Sì, cito questo fenomeno prendendolo dai diari di Simone Weil, che era andata a lavorare alla Renault e fece cose incredibili in quegli anni…Anni, appunto, in cui gli operai erano talmente fieri del loro lavoro che la gita domenicale era la visita alla fabbrica…Io sono figlia di un operaio; vivevamo in una casa popolare costruita a Latina grazie al piano Inacasa di Amintore Fanfani, che fu un piano straordinario anche dal punto di vista culturale. Gli architetti vennero mobilitati (a proposito della leadership politica) e le case furono costruite pensando alla “Vienna rossa” degli anni ’20, creando degli spazi comunitari. Queste case, dicevo, avevano dei giardinetti: nel nostro, mio padre si era costruito un’officina nella quale la domenica inventava delle cose con il sogno di poterle brevettare. Era un operaio metalmeccanico, però aveva questa ambizione di inventare, di concorrere al bene comune della sua fabbrica… Alcune cose oggi stanno già accadendo. Ma ce sono anche altre che si possono fare: pensi anche all’esperienza delle 150 ore che fu fatta negli anni ’70, un patto per la qualità della vita, per lo sviluppo, che coinvolse tre soggetti: lo Stato, che aveva ideato tutto questo percorso, i lavoratori e le organizzazioni sindacali, che davano la disponibilità ad usare il loro tempo libero, anche se non pagato, per studiare e per continuare appunto a formarsi, e tutto il corpo insegnante che gratuitamente mise a disposizione di nuovo a titolo gratuito il suo tempo per far sì che tutti i lavoratori, che allora avevano a malapena la licenza elementare, potessero arrivare a quello di scuola media. Umanesimo vuol dire anche questo.

Abbiamo toccato quindi il tema del lavoro, che è un altro grande tema che, lei scrive, è stato quasi ripudiato negli ultimi anni, tanto che l’affermazione del binomio persona—lavoro è stata un po’ delegata alle figure religiose, incluso ovviamente Papa Francesco. A questo proposito, quali sono i punti di contatto più evidenti che lei vede fra il magistero sociale di questo pontefice e il concetto di democrazia economica che lei illustra nel suo libro?

Intanto lui, Papa Francesco, è l’unico che è tornato a insistere sulla centralità e sulla crucialità del lavoro, anche ai fini della costruzione dell’identità personale e del significato che il lavoro attribuisce alla vita, della valorizzazione degli sforzi di autorealizzazione ma anche di immaginazione, di trasformazione…Il lavoro ha una carica immaginifica, trasformativa, costruttiva, un progetto che non rimane solo ancorato al reale ma prefigura una carica utopica e persino profetica, potremmo dire. La grandezza di Papa Francesco è proprio nell’illustrarci questo scenario. E poi ci sono tanti elementi che vengono anche dal magistero più classico della Chiesa ma oggi con uno spirito molto più profetico, affrancandosi quindi dagli elementi più conservatori… Per dire, la Rerum Novarum, che pure è stata un’enciclica abbastanza sconvolgente per i suoi tempi, aveva degli elementi che invitavano comunque alla pace sociale anche quando invece sarebbe stato necessario conflitto, e questi si possono definire elementi conservatori…Ma oggi, dicevo, c’è in più questo elemento profetico e questo slancio verso il futuro: non a caso il Papa ha costituito una commissione dedicata appunto a “Preparare il futuro”, c’è poi tutto il lavoro sull’”Economia di Francesco”, anche lì ci sono una serie di elementi molto importanti che sembrano recuperare il grande pensiero ottocentesco che si ritrova, oso dire, persino nel giovane Marx dei Manoscritti economico-filosofici, con il loro inno, quasi idilliaco, al lavoro. Noi invece siamo figli di un tempo in cui, appena 10-15 anni fa, si inneggiava alla fine del lavoro (se lo ricorda Rifkyn?) e negli ultimissimi tempi tanti altri hanno inneggiato alla Jobless society quasi fosse non una condanna del reale ma qualcosa da auspicare. Ed è stato a mio parere una colpa dei governi e delle classi politiche, anche dei governi di centrosinistra, aver lasciato cadere l’obiettivo della piena e buona occupazione, gli insegnamenti di Keynes, di Beveridge…Il Papa, con grandissima forza, ha ripreso il discorso del lavoro con una ampiezza che inevitabilmente impatta sul capitalismo in quanto tale, perché non si può accettare che il capitalismo, questo sistema economico, venga finanziato a danno perfino dell’economia reale... Non si può privilegiare il contratto, il negozio privato rispetto alla norma, alla legge, alla norma fondante, anche sul piano etico e sociale. Ora, tutte queste cose non è che le dicano in molti…

Non a caso nel suo libro esorta a introdurre il lavoro di cittadinanza al posto del reddito di cittadinanza…Nella sua analisi lei afferma che quest’ultima misura, come altre dello stesso tipo, piuttosto che correggerlo, è funzionale al sistema neoliberista. Eppure il reddito di cittadinanza sembra essere inviso a gran parte del mondo imprenditoriale o almeno a quello più influente. Come spiega questa contraddizione?

Beh, sì, il reddito di cittadinanza inteso come Basic Income, come lo descrive Van Parjis per me, sì, è assolutamente funzionale al neoliberismo, ci sono per fortuna un po’ di autori che lo sostengono…Ma, per tornare alla sua domanda, questa in realtà non è una contraddizione: dipende molto dal contesto culturale. Pensi che nella Silicon Vallley hanno deciso di fare il Basic Income (perché in America lo chiamano così) in forma privata: cioè sono le stessa aziende che se ne fanno carico. Ci sono stati dei politici democratici che giustamente hanno osservato: “Ma se siete così generosi da voler sostenere privatamente il Basic Income, perché allora non accettate di portare il salario minimo da tre a 15 dollari l’ora?” Quello non lo vogliono fare: vogliono tenere la gente sotto il tallone dell’oppressione e dei salari da fame…Per questo prima mi riferivo all’esperienza delle 150 ore, al New Deal, che ha creato il lavoro e generato grandi trasformazioni negli anni ‘30, come i grandi parchi americani, nati tutti con una straordinaria riattivazione della forza lavoro…Oggi dovremmo fare questo, dovremmo progettare, avere una rete di progetti, usare il Recovery Fund per raggiungere l’obiettivo della piena e buona occupazione. Qui c’è il senso della trasformazione di cui parlo: è necessaria l’introduzione dei principi di democrazia economica anche all’interno delle imprese.

Tutto questo presuppone appunto una rivoluzione…Qual è allora la chiave per vincere questa sfida e perché, per esempio, i colossi tecnologici che in questo periodo stanno accumulando grandi guadagni, dovrebbero ora favorire una trasformazione così radicale dell’economia?

Ci sono una serie di misure che possono essere adottate: per esempio la tassa sull’online di cui l’Europa sta molto discutendo. E a queste se ne possono aggiungere delle altre, come per esempio non consentire la pratica delle stock optionso, quando queste vengono create, almeno non distribuirne i dividendi. Questo già si è fatto per alcuni mesi ma lo si dovrebbe estendere: le stock options non dovrebbero essere rivendute se non dopo tre anni, anzi vanno sicuramente tassate come le retribuzioni; si possono evitare le Stock buyback, che sono uno strumento con il quale si fa risalire il valore delle proprie azioni per poi remunerare al nero azionisti e manager…Queste operazioni vanno vietate. Ci sono molte misure che possono essere prese ma io ritengo non a caso che lo sforzo maggiore deve essere sulla creazione di pezzi di alternativa. L’anno del Covid ha creato, sì, le condizioni che hanno permesso guadagni stratosferici ulteriori alle corporation tecnologiche, ma è anche una situazione nella quale si è manifestata una solidarietà, una disponibilità alla costruzione che è un patrimonio enorme da raccogliere. Ognuno di noi può fare una cosa straordinaria e lo può fare ancora meglio se si associa con altri.

Lei cita anche la grande epoca della costituzionalizzazione dei diritti del lavoro, della dignità e quindi anche del primato della politica sulla economia, che in Italia per esempio ha trovato espressione in una Costituzione che a mio parere rimane un capolavoro ma che in taluni aspetti non è riuscita a concretizzarsi. Ci sono in questo momento elementi nuovi rispetto al passato che consentono di essere più ottimisti?

Intanto sono d’accordo con lei sul fatto che la Costituzione italiana rimanga un capolavoro…Riguardo alla sua domanda: sono tutte le cose che abbiamo detto fin qui, che rendono molto più attualizzabile la Carta fondamentale, sul cui impatto concreto però sarei meno pessimista… Ci sono state anche grandi fasi realizzative, per l’appunto gli anni ’70, c’è stato un ciclo di produzione, di atti e di processi che sono stati proprio una realizzazione altissima del dettato costituzionale, dall’istituzione del Servizio sanitario nazionale ad opera di Tina Anselmi, poco prima lo Statuto dei lavoratori, il Diritto di famiglia…tantissime cose. E, ancora, penso alle 150 ore, alla legge sulla ristrutturazione e riconversione industriale, all’equo canone… sono state fatte cose bellissime… poi è arrivato il neoliberismo. Andando indietro solo a pochi anni fa, ai primi anni 2000, lei se li ricorda i progetti di chi voleva modificare gli articoli della Costituzione e in particolare quello in cui si afferma che l’impresa ha una responsabilità e un’utilità sociale? Abbiamo subìto un attacco terribile, un periodo che ora andrebbe anche riesaminato perché l’attacco è venuto anche da parte della sinistra. Oggi, sì, c’è una possibilità di tornare a realizzare il dettato costituzionale che nella sua poetica semplicità ci indica una strada che dobbiamo percorrere. E con speranza, perché il principio e la speranza è quello che non deve mai morire…

di Marco Bellizi