Responsabilità sociale e ambientale dell’impresa

L’eredità di Adriano Olivetti

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13 aprile 2021

Uno degli errori peggiori che rischiamo di commettere nel celebrare il pensiero e le opere di Adriano Olivetti è quello, come talvolta accade, di relegarlo in un ghetto provinciale ed autoreferenziale. In tante commemorazioni Olivetti appare come un tragico e isolato Spartaco dei tempi moderni. Un rivoluzionario geniale e di grandi intuizioni che si fa artefice di una rivolta titanica contro l’ordine economico esistente e alla fine è costretto a soccombere. Con l’inevitabile connessa amara conclusione dell’irriformabilità del modello economico capitalista. Questa interpretazione, oltre a essere frustrante e poco generativa di speranza, non fa onore a Olivetti e alla realtà dei fatti. Se vogliamo forse, la grandezza e il prezzo pagato da un personaggio del genere è quello di aver anticipato troppo i tempi della responsabilità d’impresa, dell’impatto e del purpose (fine dell’azione dell’impresa stessa) che oggi appaiono maturi.

Come ben sappiamo Olivetti ha creduto e si è concretamente battuto per un’impresa che «non può guardare solo all’indice dei profitti» ma «deve distribuire ricchezza, cultura, servizi, democrazia», e fu capace prima di altri di farsi una domanda sul fine dell’attività imprenditoriale quando si chiedeva: «Può l’industria darsi dei fini? Si trovano questi semplicemente nell’indice dei profitti? Non vi è al di là del ritmo apparente qualcosa di più affascinante, una destinazione, una vocazione anche nella vita di una fabbrica?».

Gli sviluppi più recenti delle scienze economiche e sociali danno sempre più ragione a Olivetti se iniziano a descrivere la persona innanzitutto come “cercatrice di senso” e se il tema del purpose entra prepotentemente nel dibattito mainstream del pensiero economico anglosassone. Nel 2018 con la famosa lettera alle principali multinazionali del mondo il fondatore e amministratore delegato del maggiore fondo d’investimento del mondo (BlackRock con più di 6.000 miliardi di masse gestite) afferma che: «Senza un senso di scopo, nessuna azienda, sia pubblica che privata, può realizzare il suo pieno potenziale.  Alla fine perderà la licenza per operare da parte degli stakeholder (consumatori, lavoratori, comunità locali) chiave. Soccomberà alle pressioni a breve termine per distribuire i guadagni, e, nel processo, sacrificare gli investimenti nello sviluppo dei dipendenti, l’innovazione, e le spese di capitale che sono necessari per la crescita a lungo termine. Rimarrà esposta a campagne degli attivisti… e alla fine quell’impresa realizzerà rendimenti sotto la media per gli investitori che dipendono da essa per finanziare la loro pensione, l’acquisto della casa, o l’istruzione superiore dei propri figli». Con questa dichiarazione che assomiglia a quella di Olivetti, seppur in una prospettiva più utilitarista, il maggiore fondo d’investimento del mondo sancisce il cambiamento epocale dell’atteggiamento degli investitori finanziari: imprese senza uno scopo che vada oltre il massimo profitto e senza un’attenzione alla responsabilità sociale e ambientale sono imprese meno sostenibili e più esposte a rischi di lungo periodo e pertanto rappresentano occasioni meno interessanti d’investimento.

Se la responsabilità d’impresa diventa progressivamente il new normal le imprese che la praticano si dividono e continueranno a dividersi tra quelle che sposano il nuovo conformismo solo per motivi di convenienza, a fronte di quelle invece gestite da imprenditori “più ambiziosi” che vogliono massimizzare la generatività della loro azione fatta non solo di profitto ma anche d’impatto sociale e ambientale. Olivetti sarebbe senz’altro ascrivibile oggi a questa seconda categoria.

Il mondo appare talmente cambiato e in movimento nella direzione auspicata da Olivetti che le istituzioni sentono oggi la necessità di “regolare il traffico” cercando di evitare manipolazioni e abusi di una “virtù” (quella della responsabilità d’impresa) che resta per lo più non verificabile direttamente da cittadini, consumatori e risparmiatori.

Ecco dunque nascere la tassonomia dell’Unione europea su cosa può essere definito investimento responsabile in ciascun settore di attività economica e la regolamentazione per i fondi d’investimento che quando propongono un prodotto “etico” ai cittadini sono costretti a fornire misure dettagliate del progresso realizzato su indicatori ambientali dalle imprese incluse nel loro portafogli. Ciò implica una pressione fortissima in futuro dai fondi verso le imprese i cui titoli detengono in portafoglio a dotarsi di indicatori precisi che misurano responsabilità sociale e ambientale.

Se quest’evoluzione continuerà, Adriano Olivetti sarebbe molto contento di vedere le sue idee concretizzarsi in uno strumento contabile (la rendicontazione non finanziaria) sempre più circoscritto e dettagliato fino a diventare un vero e proprio secondo bilancio che misura la responsabilità sociale e ambientale d’impresa.

Altri due temi chiave del pensiero olivettiano sono quelli dell’impresa come comunità di stakeholder e la sua sensibilità al tema del senso del lavoro a fronte del potenziale di alienazione di alcuni tipi di lavoro «Il lavoro dovrebbe essere una grande gioia ed è ancora per molti tormento, tormento di non averlo, tormento di fare un lavoro che non serva, non giovi a un nobile scopo». Anche sull’idea del valore delle relazioni nella vita dell’impresa il mondo non si è fermato e sta dando seguito alle intuizioni che trovavano fondamento nella filosofia personalista di Mounier. Le aziende moderne sono sempre più organizzazioni creative più e sempre meno catene di montaggio. Se nel vecchio modello le catene di comando e controllo di carattere gerarchico potevano verificare se il gesto meccanico venisse ripetuto come previsto dal contratto e dai canoni di produttività, nel nuovo modello comando, controllo e gerarchia funzionano sempre meno e non sono in grado di conquistare il cuore e l’anima dei lavoratori, le loro motivazioni intrinseche che sono le premesse di un vero impegno creativo e produttivo. Anche le scienze sociali hanno messo a fuoco con precisione come la vita produttiva moderna sia fatta di dilemmi sociali, ovvero di situazioni nelle quali la fiducia e la meritevolezza di fiducia consentono di fare squadra ed ottenere risultati superadditivi (più della somma di quello che i membri della squadra avrebbero fatto separatamente da soli). Ma la fiducia è un rischio perché significa mettersi nelle mani di un altro senza una protezione legale. E solo maestri delle relazioni capaci di costruire circuiti di dono, gratitudine, reciprocità e relazioni di qualità conoscono il segreto che rende possibile la creazione di squadre coese, buone relazioni e contemporaneamente qualità produttiva della vita aziendale.

In un mondo dove stanno progressivamente facendo il loro ingresso i temi della generatività, dell’impatto, della responsabilità sociale e ambientale, Adriano Olivetti si sarebbe trovato in grande compagnia. Forse avrebbe provato ad attingere anche all’innovazione delle forme organizzative oggi a disposizione che consente alle imprese profit non cooperative di affiancare all’obiettivo tradizionale un secondo obiettivo di responsabilità sociale e ambientale a statuto diventando una B-Corp o una benefit corporation. Senz’altro avrebbe dato un contributo fondamentale a quel percorso di economia civile col quale una parte sempre più importante del mondo imprenditoriale risponde all’appello di Papa Francesco ad affrontare i grandi problemi della nostra società, l’insostenibilità ambientale, le diseguaglianze sociali che producono scartati e la malattia della povertà di senso del vivere che ha fatto esplodere nell’ultimo decennio una vera e propria epidemia di morti per disperazione facendo salire il tasso di mortalità degli over 50 negli Stati Uniti.

Se Olivetti non contribuisce con le sue energie e il suo lavoro ai nuovi sforzi di oggi, sicuramente continua a farlo con il tesoro della sua storia di vita e del suo pensiero a cui i nuovi pionieri di oggi non finiscono di attingere.

di Leonardo Becchetti