LABORATORIO - DOPO LA PANDEMIA
Conversazione con Moreno Zani, presidente di Tendercapital

Tutti insieme
o non si cresce

 Tutti insieme o non si cresce  QUO-082
12 aprile 2021

«Serve un patto fra Stato, imprese e lavoratori, perché prima o poi il debito dovrà essere ripagato e l’unica via è tornare a crescere». Moreno Zani, fondatore e presidente di Tendercapital, società di gestione del risparmio, da tempo lancia l’allarme sulle conseguenze future della crisi provocata dalla pandemia. La sua società ha partecipato alla realizzazione del rapporto Censis sulla povertà in Italia, presentato lo scorso novembre. Non è stata una scelta improvvisata. Le aziende, gli investitori vogliono cercare di capire come sarà il mondo prossimo. E cosa chiede. La risposta ricavata è abbastanza chiara, e coincide con l’analisi che molti imprenditori, politici, economisti, sociologi, hanno illustrato anche attraverso le pagine dell’Osservatore Romano: serve un progetto nel quale tutti si sentano finalmente coinvolti. E del quale, soprattutto, ognuno possa beneficiare.

Zani, quando un uomo come lei, un imprenditore, uno che gestisce fondi di investimento, un uomo pratico, capisce che è ora di cambiare prospettiva, anche nel proprio lavoro?

Lo si capisce se si è attenti alla realtà che ci circonda, perché in realtà i nostri investimenti vengono da lì. Occorre tradurre quello che vediamo, che viviamo, che vivono gli altri, in ipotesi e, in caso di possibilità, in investimenti di breve o di lungo periodo. Per questo noi lavoriamo tanto con gli istituti di ricerca come il Censis perché questo ci dà la possibilità di vedere le evoluzioni della società sia sociali sia economiche. A noi permette di focalizzare meglio gli investimenti sul lungo termine e a loro di dare indicazioni utili ai “decisori”.

Qui è l’imprenditore che parla…ma come uomo, personalmente, c’è stato un momento in cui ci si è reso conto che non si poteva, non si può, continuare come prima, limitarsi ad annusare il vento?

C’è stato un punto di svolta in cui abbiamo detto, l’ho detto io, poi l’abbiamo detto nella struttura che guido: “Dobbiamo cambiare modalità, tipo di investimento”: è stato l’anno scorso, quando abbiamo visto quello che accadeva, sia dal punto economico sia dal punto di vista sociale. Da lì abbiano cambiato gli investimenti...Che poi non è che li abbiamo proprio cambiati; bisognerebbe entrare nel dettaglio; bisognerebbe capire se ci riferiamo a degli investimenti (parlo in questo momento della mia attività core) diciamo classici, quelli che facciamo tutti noi, l’obbligazionario, l’azionario….: lì è cambiato poco, per cui addirittura il mercato finanziario si è praticamente dimenticato di quello che era accaduto 3 o 4 mesi prima quando era nella tragedia più totale e ha ricominciato a correre come se nulla fosse successo, anzi come se il futuro fosse più roseo anche di quello che era ipotizzabile prima della pandemia, cosa sulla quale io ho i miei dubbi. Cosa diversa è invece il tema degli investimenti cosiddetti “alternativi”, di lungo periodo…Lì c’è stato un cambiamento sia per quanto riguarda la parte sostenibile-ambientale, che già era in corso, sia la parte sostenibile-sociale che abbiamo visto dovrà diventare il core della nostra attività.

Visto che lei ha opportunamente citato la dimensione ecologica e sociale, e che lei è anche molto attivo nel campo dell’arte, le chiedo questo: il futuro dell’economia passa per la riscoperta dell’importanza anche economica, dei servizi integrali alla persona?

A mio parere è fondamentale, nel senso che abbiamo visto negli anni questo movimento legato alla sostenibilità ambientale, al mondo dell’ Esg (Enviromental, Social and Governance, ndr)…Quello che è cambiato è che bisognava rifocalizzare anche il proprio pensiero, al di là della attività economica, dalla “E”, che è importantissima certamente, sulla parte “S”, che è centrale e che invece era stata un po’ dimenticata. Allora lì si apre un mondo di valutazioni rispetto alle attività che possono portare beneficio alla persona, e allora penso all’arte, alla cultura. L’Italia è forse il Paese più ricco da questo punto di vista e dobbiamo essere in grado di sfruttarlo in senso positivo.

Da più parti, dal mondo della politica, dell’economia, emerge la richiesta di un ritorno allo Stato. Immagino che per chi è invece molto impegnato nel mercato quella dello Stato sia una presenza in qualche modo “inquietante”…Qual è il suo punto di vista riguardo in particolare a una “regia politica” più incisiva che in passato?

Io personalmente vedo la figura dello Stato non come operatore diretto nel mercato ma come presenza forte come “regolatore”. Io faccio l’imprenditore, come tutti gli imprenditori sono favorevole alla libera iniziativa privata…Ecco, quando lo Stato diventa protagonista in questo spazio ci sono pro e contro, abbiamo visto in passato più i secondi che i primi… e comunque un’entità che si inserisce nella normale operatività secondo me non è la cosa migliore. La cosa giusta invece è uno Stato anche forte che intervenga e detti le regole e gli obiettivi. Questo è ciò che dovrebbe accadere ora. Lo Stato ha delle funzioni essenziali da svolgere, che vanno dalla previdenza all’assistenza, alla sanità in generale…qui può essere forte l’intervento per dire: “La situazione è cambiata, le regole devono cambiare ma soprattutto devono cambiare gli obiettivi, per cui io devo cambiare le condizioni per cui tu impresa possa fare il tuo lavoro in modo efficiente e in concorrenza con le imprese nazionali o internazionali. Ma tu impresa ti devi prendere in carico una parte delle necessità dei lavoratori”, e mi riferisco soprattutto alla previdenza complementare e alla sanità…I modi ci sono, perché da qualche parte l’equilibrio va trovato…Altrimenti avremo lo Stato sempre più indebitato e prima o poi questo debito andrà pagato, prima o poi la pandemia passerà e ci troveremo con in problemi di prima, al cubo. Se ne può uscire solo facendo un patto con gli imprenditori, che poi è un patto di crescita, perché il debito si paga solo se si cresce…È un po’ la stessa cosa del reshoring delle imprese: devo esercitare una moral suasion forte per cui tu riporti qui le attività che possono essere essenziali (pensiamo a quello che è successo con la pandemia, alla produzione delle mascherine o con i vaccini). Questo potrebbe voler dire riportare occupazione e anche, per le imprese, un ritorno in termini di prezzi, perché riportando la produzione in Paesi che hanno un sistema di protezione sociale più forte è chiaro che i prezzi più alti tornerebbero a essere concorrenziali.

Questo però può accadere solo a fronte di un approccio globale, non può essere lasciato all’iniziativa di un singolo Paese, altrimenti sarebbe perdente...

Sì, ma può avvenire per esempio a livello europeo. Gli americani lo hanno fatto, magari in modi, come dire, poco “gentili”, soprattutto nel corso della precedente amministrazione. In questo vedo bene l’attività dello Stato, di determinare il quadro, le condizioni, anche severe, all’interno del quale poi la libertà deve essere totale. Occorre una revisione della politica industriale dello Stato, il quale deve dire quali sono le attività sulle quali lui punta, anche rispetto alle eccellenze del Paese, come per esempio ha fatto la Francia quando ha creato ormai 15 anni fa la cosiddetta politica dei “campioni nazionali”: ha deciso quali erano i settori trainanti e ha investito anche in termini di incentivi e sostegni alla produzione in loco su settori che considerava determinanti. Questo per esempio all’Italia è mancato: siamo andati avanti per obiettivi di breve senza avere una chiara indicazione, che consenta agli imprenditori di focalizzare gli investimenti a lungo termine.

Ma è più colpa dei politici o degli imprenditori?

Mah…io sono dell’idea che la colpa non è mai da una parte sola. Sicuramente lo Stato italiano avrebbe potuto avere una visione più di lungo termine ed esplicitarla al mondo produttivo. Probabilmente anche il nostro sistema un po’ ballerino, con cambiamenti di governo infralegislatura non ci ha consentito di avere la forza di porre una strategia.

Manca il mea culpa dell’imprenditore…

Il mea culpa dell’imprenditore è sempre lo stesso: se lei lascia libero l’imprenditore di fare quello che vuole, questo punta solo ad aumentare il suo profitto. E la massimizzazione del profitto non porta lontano, basta vedere dove siamo finiti. Tra l’altro siamo diventati dei Paesi di accumulatori invece che di investitori, basta vedere la quantità di denaro presente sui conti correnti bancari, che non viene investita per mille ragioni…Bisogna vedere anche l’evoluzione dell’imprenditore italiano, che è diventato venditore e accumulatore di ricchezza invece di essere investitore.

Questo significa recuperare il valore dell’economia reale

Sì, è il punto essenziale. I tassi sono a zero, almeno nel mercato europeo dove sarà così almeno per i prossimi due, tre anni…Bisogna indirizzarsi verso l’attività reale, poi sta allo Stato definire gli obiettivi di questa attività, per esempio, un certo tipo di infrastrutture, la digitalizzazione…

Sono parole che fanno eco a tanti interventi del Papa su questi temi. Lei come li ha recepiti?

Personalmente condivido quando lui ha parlato della questione sociale e di conseguenza di una redistribuzione della ricchezza. La forchetta, anche a seguito della pandemia, è aumentata di più, perché chi aveva più liquidità finanziarie ha ancora più agio di prima. Chi vive di reddito medio basso ha avuto un’ulteriore decurtazione, pensiamo a tutti quelli che sono finiti in cassa integrazione…È qui che bisogna condividere la preoccupazione del Santo Padre e intervenire in quel senso, lo Stato deve intervenire e dire che c’è bisogno di un nuovo patto fra l’impresa e il lavoratore. Queste cose le ho dette anche al Santo Padre quando l’ho incontrato il 5 dicembre scorso, a Roma. Pensiamo alla previdenza, che, se andiamo avanti così, diventerà una bomba a orologeria, a meno di non fare altro debito. La mia paura è che quando usciremo dalla pandemia il discorso a livello europeo sarà lo stesso: quanto debito rispetto alla produzione? Come fai a rientrare nei parametri?

Se lei potesse decidere, quale sarebbe la prima cosa alla quale metterebbe mano?

Sicuramente in questo momento non penserei al debito. Il punto è che il debito non è cattivo se ha un utilizzo sensato e produttivo. E da questo punto di vista, ha ragione Draghi quando dice: “ Noi abbiamo una grande occasione davanti” e chiunque maneggi il denaro sa che esiste una leva non solo finanziaria ma di mercato per farlo rendere dieci volte di più. Il punto è che dobbiamo definire quelle attività economiche o infrastrutturali del futuro che ci consentiranno di far ripartire il pil. Questa è l’unica via. Dobbiamo investire le somme in modo intelligente. L’Italia, per esempio, ha dei settori chiave, che sono il turismo, la cultura, l’attività di ricerca, e difetti enormi, come le reti di trasmissione, le infrastrutture tradizionali. Dopo penseremo al debito.

Ancora una volta, come dice Papa Francesco, “peggio di questa crisi c’è solo il dramma di sprecarla”...

Esatto. Ci siamo trovati di fronte a qualcosa che nessuno di noi aveva immaginato, che ci è costato morti (io stesso ho avuto mia madre morta per covid e mia sorella quasi). È il momento per dire: “cambiamo”. Ma non “cambiamo” per far sì che il 5-10 per cento della popolazione cresca e gli altri al traino con le briciole. Ci deve essere un riequilibrio. Dobbiamo dare a tutti la possibilità di godere del benessere. Gli investimenti devono andare in questa direzione. E le imprese devono farsi carico di una parte di questi oneri.

di Marco Bellizi