Il manoscritto di Vivario nel «Quinto evangelio»

Pomilio e il suo Cassiodoro

Cassiodoro effigiato in un manoscritto del XII secolo
12 aprile 2021

Pubblichiamo una parte di uno dei saggi contenuti in «Cassiodoro primo umanista» a cura di Alessandro Ghisalberti e Antonio Tarzia (Milano, Jaca Book, 2021, pagine 208, euro 20) con introduzione di Franco Cardini.

Nel rievocare la genesi del suo possente “iper-romanzo”, Il quinto evangelio (Rusconi, 1975), Mario Pomilio riferisce un illuminante dettaglio: nella «febbrile mattina dell’agosto 1969» in cui nacque l’idea germinale di un libro da incentrare sulla fantastica ricerca del Libro dei Libri, «quanto di meglio riuscì a progettare fu qualcosa di simile a un romanzo epistolare, un insieme di lettere scritte talora a distanza di secoli ma tutte convergenti in un unico interrogativo e in un’unica vicenda». E quasi subito aggiunge un’altra rivelazione: «Di questo primitivo progetto una traccia rimane tuttora nel romanzo: l’intero capitolo del Manoscritto di Vivario — una vicenda epistolare che dura nei secoli — il quale fu del resto il primo ad essere scritto». […]

Sarà quindi verosimilmente avvenuto nella silenziosa sala di lettura di una biblioteca pubblica o privata il primo incontro del professor Pomilio con l’eminente, venerabile figura di Flavio Magno Aurelio Cassiodoro (ca. 485-580): il politico e scrittore latino di fede cristiana nato e morto a Scolacium, sulla costa ionica della Calabria, vissuto sotto il regno romano-barbarico degli Ostrogoti, stimato collaboratore di Teodorico e dei suoi successori, promotore di un avvicinamento culturale fra i popoli goto e romano, fra cattolici ortodossi e dominatori ariani, fondatore intorno alla metà del vi secolo del monastero di Vivarium. Di Cassiodoro l’autore del Quinto evangelio avrà messo a fuoco il percorso biografico, il cursus honorum e il profilo spirituale sfogliando antiche edizioni di sue opere memorabili: le enciclopediche Institutiones, le lettere e i documenti costitutivi delle Variae e — sul piano squisitamente biblico-esegetico — il trattato De anima e la Expositio Psalmorum. Avrà inoltre approfondito, in particolare, l’evento cruciale della fondazione del cenobio calabrese, le sue vicende cronologicamente circoscritte ma durevoli nei loro riflessi e influssi su tutto il panorama della civiltà medievale. Com’è noto agli specialisti, infatti, differenziandosi in parte dalla vocazione della famiglia benedettina, la comunità di Cassiodoro, in maggioranza un nucleo di amanuensi, perseguiva un obiettivo che potremmo senz’altro qualificare come “librario”: la copiatura, la conservazione e lo studio di volumi contenenti perlopiù testi della classicità latina e della patristica occidentale. Una speciale preminenza, in questa attività benemerita, veniva riservata alla Bibbia, di cui Cassiodoro fece allestire ben tre edizioni. Ne consegue che il fulcro vitale, il cuore pulsante del monastero era, più che in ogni altra comunità monastica coeva, la biblioteca con il suo scriptorium: un patrimonio d’inestimabile valore che purtroppo, già prima della metà del vii secolo, andò disperso e parzialmente perduto nella precoce decadenza del cenobio.

Rielaborati, reimpastati e amalgamati con molti altri elementi reali e fittizi da quella che Pietro Gibellini ha definito «la filologia fantastica di Pomilio», questi dati storici innervano la prima delle dieci lettere-pannelli di cui consta il polittico epistolare, disteso su un asse diacronico, del Manoscritto di Vivario. A scriverla con perizia retorica congiunta a una profonda sensibilità di coscienza, secondo l’abilissima “mistificazione” messa in atto da Pomilio, sarebbe stato, verso l’anno 600, un monaco di Vivario di nome Paolo Settimio Secondo; destinatario un altro monaco suo amico, Teodato, residente nel monastero romano di San Paolo. Si tratta all’apparenza di una traduzione da un originale latino, come poi tutte le altre missive allineate nella “filiera” del Manoscritto, tranne l’ultima, “tradotta” da un presunto francese arcaico. E qui merita una sottolineatura, un riconoscimento ammirato, il talento dello scrittore moderno nel simulare una fedele riproduzione del lessico, della morfologia, della sintassi, delle cadenze e persino dei movimenti di pensiero e dei flussi di coscienza intrinseci all’uso della lingua latina medievale […].

Nella lettera d’apertura, “firmata” da Settimio, la personalità carismatica di Cassiodoro si staglia a tutto tondo, posta dallo scrivente in relazione con la strabiliante scoperta in seguito alla quale comincia a dipanarsi il filo conduttore del complesso tracciato epistolare. Nelle successive epistulae, invece, la memoria del fondatore di Vivario si affievolirà man mano che vedremo srotolarsi il tappeto dei secoli: si ridurrà a una flebile eco, sino a svanire del tutto. Ma in che cosa consiste la scoperta che ha lasciato senza fiato il monaco vivariano, ex retore pagano e neofita della Chiesa di Cristo? Da un cassetto nascosto in un armadio all’interno della biblioteca il cenobita racconta di aver estratto fortuitamente un fascicolo di aspetto vetusto, scritto in greco, dal quale ha visto spuntare un foglietto vergato di suo pugno dallo stesso Cassiodoro, prima che sopraggiungesse la sua morte. Il saggio biblista vi annotò di avere ricevuto da un monaco greco originario di Efeso quel manoscritto contenente, secondo il donatore, il testo di un Vangelo che Giovanni avrebbe composto anteriormente all’Apocalisse e di cui si sarebbe in parte servito per redigere il suo Vangelo canonico. L’esito contraddittorio della verifica eseguita e testimoniata da Cassiodoro, fonte di esaltazione da un lato ma anche di dubbio e sconcerto dall’altro, indusse il fondatore a richiudere e occultare il conturbante Vangelo giovanneo o pseudo-giovanneo. La stessa cautela si è trasmessa, sul filo dell’autorità scritturale del maestro, al suo discepolo, che preferisce sottrarsi al rischio di squilibrare la già precaria stabilità della sua fede. Ma non rinuncia a chiedere consiglio al confratello Teodato circa il comportamento da lui ritenuto più conveniente.

Da questo anello iniziale si diparte una catena di altri nove documenti epistolari che perpetuano fino in età rinascimentale la vaga notizia dell’esistenza di un quinto Vangelo transitato da Efeso a Vivario, e poi scomparso nella dispersione della biblioteca del monastero. Tale “voce” colorata di leggenda rimbalza, di lettera in lettera, di ecclesiastico in ecclesiastico, da Montecassino a Canterbury, da Stilo a Ferrières, da Clermont a Bobbio. E proprio nel monastero-abbazia di Bobbio un chierico francese, Floro Diacono, estensore della settima lettera, sostiene che debba essere conservato l’introvabile manoscritto: «[...] a Bobbio esiste già un volume che i monaci di lì dicono essere il quinto evangelio. Ve lo portò San Colombano, il loro stesso fondatore, al ritorno, si narra, da un suo viaggio in Calabria: e giudicandolo, forse, santamente ispirato, prescrisse ai suoi di custodirlo e di tenerlo in grande onore».

Tornando ora alla Lettera n. 1, imperniata sul rinvenimento del manoscritto greco e dell’accluso appunto autografo in latino di Cassiodoro, può risultare interessante — per una migliore definizione del ritratto che Pomilio traccia, delegandolo al suo personaggio, del grande letterato e teologo — recuperare da quel testo qualche tratto distintivo di ordine intellettuale, spirituale e psicologico. Fin dalla prima evocazione, Cassiodoro viene rappresentato come un vegliardo sapiente e assennato: il suo intento «fu di fondare, lontano dalle guerre e dalla nequizia dei nostri tempi dissipati, una comunità che si dedicasse tutta a conservare e trasmettere intatta la parola rivelata», con una certa libertà d’orientamento e d’azione concessa ai suoi cenobiti. Ma anche con accorta prudenza, con l’avvertenza di «lasciare assai poco» ai loro «dubbi» e al loro «arbitrio». Un’altra sua dote spiccata: l’acume filologico, durante la collazione di più codici, nel saper scegliere la lezione più attendibile. E, ancora, l’umiltà di ammettere «che aveva avuto anch’egli, nella revisione delle Scritture, le sue esitazioni, e talora i suoi ardimenti».

A ispirare la sua cautela nel riconoscimento di una pur limitata autenticità al presunto quinto Vangelo di matrice giovannea fu, inoltre, la preoccupazione di non fomentare involontariamente, rendendolo pubblico, nuove controversie e fratture oltre a quelle già provocate «da incaute letture di questo o quel Vangelo o passo del Vangelo», di non «turbare una verità ormai stabilita». Spicca, infine, la sterminata cultura in materia di testi sacri, sorretta — a dispetto della fragilità senile — da una mente fertile e da una memoria vivida. Tutti quegli innumerevoli volumi «non li aveva soltanto letti, li aveva sviscerati; e portava nei suoi metodi […] quel giusto equilibrio tra misura e libertà che nasce solo da lungo studio e da tenace dimestichezza». Che cos’altro compongono, queste devote reminiscenze, se non un vero e proprio panegirico?

di Marco Beck