RISUS PASCHALIS - VERSO LA PENTECOSTE CON LA GIOIA DELLA RESURREZIONE

Liberi dalla paura

 Liberi dalla paura  QUO-082
12 aprile 2021

«Quaranta Giorni» era il titolo della rubrica che ha accompagnato con brevi meditazioni spirituali il percorso dei lettori dell’Osservatore Romano nel tempo di Quaresima, un tempo “forte” dell’anno liturgico ma reso ancora più impegnativo e “accidentato” dalle attuali condizioni dettate dalla pandemia. In questo senso quella rubrica voleva essere un sussidio, un accompagnamento per i fedeli in un momento di prova.

Da oggi iniziamo un percorso corrispondente per un altro tempo, altrettanto forte, anzi di più: il Tempo Pasquale, un unico giorno lungo i 50 giorni che separano la Pasqua dalla Pentecoste. Un tempo segnato dalla presenza di Gesù Risorto. Lo abbiamo intitolato «Risus Paschalis», con nessun riferimento alla discussa pratica liturgica che era in uso secoli addietro in alcuni Paesi europei, ma in relazione a quella lietezza del vivere che dovrebbe essere la quintessenza del carattere del cristiano, e che però spesso lascia il passo ad una visione della vita fatta di timore, contrizione, e penitenza; una visione che non può essere la fondamentale per chi è testimone della vittoria della Vita sulla morte.

Cercheremo dunque di declinare il termine “Gioia” con il contributo dei nostri autori. La Gioia che viene dalla Resurrezione. La Gioia di Cristo. (A.M.)

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La gioia segna la vita. Un evento gioioso lascia un segno indelebile né più né meno di quanto lo possa arrecare l’esperienza del dolore. L’uno si nutre dell’altro. Il dolore spezza il senso della gioia, così come la gioia libera dal dolore. Come il dolore evidenzia le nostre fragilità e mortifica le nostre capacità, così la gioia ci rende forti, coraggiosi, invincibili, esalta le risorse più intime e preziose di ciascuno. La gioia cambia la vita.

È l’esperienza drammatica che vissero gli Undici. La loro vita si sconvolse ed assunse un altro segno con la Resurrezione, e dopo la Resurrezione.

San Giovanni Crisostomo, in una sua celebre omelia, giunse ad individuare proprio in questo cambiamento radicale di prospettiva di vita degli apostoli, la prova della veridicità storica della Resurrezione.

Scrive il vescovo antiocheno in una delle Omelie sulla prima lettera ai Corinzi (Om 4,3.4) con parole taglienti che lasciano spazio a mediazioni: […]Paolo esclamava «Ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini» (1 Cor 1,25). Questa frase è chiaramente divina. Infatti come poteva venire in mente a dodici poveri uomini, e per di più ignoranti, che avevano passato la loro vita sui laghi e sui fiumi, di intraprendere una simile opera? Essi forse mai erano entrati in una città o in una piazza. E allora come potevano pensare di affrontare tutta la terra? Che fossero paurosi e pusillanimi l’afferma chiaramente chi scrisse la loro vita senza dissimulare nulla e senza nascondere i loro difetti, ciò che costituisce la migliore garanzia di veridicità di quanto asserisce. Costui, dunque, racconta che quando Cristo fu arrestato dopo tanti miracoli compiuti, tutti gli apostoli fuggirono e il loro capo lo rinnegò. Come si spiega allora che tutti costoro, quando il Cristo era ancora in vita, non avevano potuto resistere a pochi giudei, mentre poi, giacendo lui morto e sepolto e, secondo gli increduli, non risorto, e, quindi non in grado di parlare, avrebbero da Lui ricevuto tanto coraggio da schierarsi vittoriosamente contro il mondo intero? Non avrebbero potuto dire: E adesso? Non ha potuto salvare se stesso, come potrà difendere noi? Non è stato capace di proteggere se stesso, come potrà tenderci la mano da morto? […..] È evidente perciò che, se non lo avessero visto risuscitato, e non avessero avuto una prova inconfutabile della sua potenza, non si sarebbero esposti a tanto rischio».

Fuggirono per paura da sotto la croce, ma pochi anni più tardi ebbero il coraggio di affrontare senza esitazioni il martirio. È evidente che questo paradosso non può che essere scaturito dalla gioia di essere stati testimoni di un evento che supera la realtà e rimuove la più ancestrale e radicata delle paure dell’uomo: la sua finitudine. Una paura da cui scaturiscono tutte le nostre altre paure.

Il mondo in cui oggi viviamo, tra i tanti benefici che pur ci offre, non è in grado di liberarci dalle paure. Anzi ne produce sempre nuove. Perché non sa affrontare la paura primordiale. Noi non siamo stati, come gli undici, testimoni di quell’evento, ma dovremmo essere capaci di cogliere, al fondo di questa paura originaria, un insopprimibile anelito d’immortalità.

Che è, esso stesso, prova del nostro essere figli di Dio, fatti a sua immagine e nostalgici della Sua eternità.

di Roberto Cetera