Nella crisi della pandemia

La folla silenziosa
di nuovi poveri

 La folla  silenziosa  di nuovi poveri  QUO-082
12 aprile 2021

È l’esercito dei nuovi poveri. Badanti, lavoratori in nero, parcheggiatori abusivi, camerieri, cuochi, costretti a mettersi in fila aspettando di ritirare il proprio takeaway, un sacchetto di pane, frutta e verdura. A Roma accade in diverse zone, in molti quartieri; a Tor Pignattara, per esempio, tra via Bufalini e via San Barnaba, sede dell’Associazione Lodovico Pavoni.

«Un tempo erano soprattutto extracomunitari e clochard a chiedere il nostro aiuto, poi con lo scoppio della pandemia a questa schiera di bisognosi si sono aggiunti giovani famiglie e anziani di nazionalità italiana. Colf, lavoratori precari di bar e ristoranti chiusi a causa del lockdown»: a parlare è la signora Clara, volontaria e fondatrice dell’associazione Lodovico Pavoni, da trent’anni in prima linea, con padre Claudio Santoro, per garantire assistenza alle famiglie in cerca di supporto, qualcosa da mangiare, vestiti usati e una parola di conforto. Se prima della pandemia a invadere le mense e i centri di distribuzione alimentare erano soprattutto immigrati e senzatetto, oggi, a causa del drastico calo dell’occupazione, soprattutto irregolare, a farsi avanti sono tanti padri di famiglia che hanno perso il lavoro. In primis coloro i quali non possono beneficiare dei ristori previsti dal governo, perché sprovvisti di un contratto a norma di legge. «Prima della diffusione del covid-19, il 90% delle persone che si rivolgevano a noi era composto da famiglie straniere — spiega padre Santoro, che è anche vice parroco della chiesa di San Barnaba, a Torpignattara —. Oggi vengono a chiederci aiuto tanti italiani rimasti senza lavoro e nell’impossibilità di beneficiare di introiti alternativi. Si accodano insieme agli altri per necessità, con un certo imbarazzo, soprattutto le persone più anziane». Tutto si svolge rispettando le norme di sicurezza anti-covid, ci tiene a precisare il sacerdote, regole a cui tutti siamo ormai abituati: distanziamento interpersonale, mascherina a coprire naso e bocca, igienizzazione delle mani. Le famiglie ritirano il proprio sacchetto e vanno via, perché l’assembramento non è consentito. «Ogni sera tre volontari della nostra comunità si recano nei forni di Tor Pignattara e prelevano quintali di pane, rimasto invenduto tra i banchi durante il giorno. L’indomani provvediamo noi a consegnarlo alle famiglie di zona», aggiunge la signora Clara. «Negli spazi esterni della nostra struttura si crea una fila di cento persone che ritirano i sacchetti, tutti i giorni, compresa la domenica. Distribuiamo dai tre ai cinque quintali di pane, a volte anche latte e formaggio. Frutta e verdura solo il giovedì pomeriggio». E in quel caso la fila è maggiore, come se ortaggi e frutta fossero diventati ormai beni di lusso. Ma il lavoro di volontariato non finisce lì. «Tutti i giovedì — prosegue padre Claudio — andiamo alla Stazione Termini a rifornire i clochard di cibo, coperte e vestiario. Oggi nelle buste aggiungiamo anche disinfettanti, mascherine e saponi per l’igiene personale, dando così il nostro contributo nella prevenzione del contagio tra le categorie a rischio come i senzatetto, che non sono nelle condizioni di lavarsi quotidianamente. Suddividiamo loro i pacchi uno per uno, fino a raggiungere un numero di centocinquanta persone. Un tempo si arrivava a quattrocento, cosa impensabile oggi che gli assembramenti sono proibiti. Ogni giovedì mattina viene qui anche l’Elemosiniere di Papa Francesco, il cardinal Krajewski, per ritirare frutta e verdura da distribuire ai poveri», racconta ancora padre Claudio, «tranne quando è stato male per via del covid». Il cardinale, lo ricordiamo, si era ammalato a dicembre dello scorso anno ed era stato ricoverato all’ospedale Gemelli di Roma. «Facciamo grande attenzione, è un brutto virus», aveva dichiarato dopo essersi rimesso per fortuna nel giro di poche settimane.

A Roma e nel Lazio, a svolgere un ruolo cruciale nella distribuzione delle derrate non più commerciabili — per scadenza ravvicinata, errato confezionamento o perché prodotte in eccesso — c’è anche l’associazione Banco Alimentare O dv di Roma. «In seguito al primo lockdown si è verificato un incremento delle necessità, dovute alla difficile situazione in cui ci siamo ritrovati tutti», ci racconta Emanuele Perrotta, vice presidente dell’associazione. «Nel caso delle parrocchie, dove molti dei volontari erano soprattutto anziani, quindi persone potenzialmente a rischio, si è assistito alla chiusura provvisoria delle mense che fino a quel momento avevano garantito assistenza alle famiglie bisognose. Sono emerse molte storie di povertà sommersa. Noi del Banco Alimentare — prosegue — abbiamo ricevuto moltissime mail di richiesta d’aiuto da parte di istituzioni in rappresentanza di cittadini stranieri residenti in Italia, alcuni sprovvisti di permesso di soggiorno, che in seguito alla pandemia si sono ritrovati in serie difficoltà. Li abbiamo indirizzati alle associazioni attive sul territorio e ai municipi di competenza».

Anche le mense parrocchiali hanno dovuto adeguarsi alle disposizioni dettate dalle norme anti-contagio. Con il diffondersi della pandemia, a partire dal 2020, i locali delle parrocchie, un tempo adibiti a luoghi di ristorazione e affollati da persone bisognose di un pasto caldo, hanno lasciato posto alle lunghe file indiane all’aperto. Come nel caso del Santissimo Redentore a Val Melaina. «Iniziamo a cucinare alle 8 del mattino e distribuiamo cibo a chiunque si presenti alla porta in via del Gran Paradiso 51», ci spiega il signor Pino, volontario della parrocchia da decenni insieme a un centinaio di altri fedeli. «Dalle 11 alle 12.30, sei giorni su sette, eccetto la domenica. Sabato consegniamo il doppio delle vivande, anche mezzo chilo di pasta, così da garantire una razione disponibile per la sera. La fila è composta per metà da italiani e per metà da stranieri. A volte si aggiungono nomadi, ma piuttosto di rado. Sono tutti ben accetti. Prima della pandemia, nei locali della mensa ospitavamo un centinaio di persone, ma da quando circola il virus le cose sono cambiate, non ci si può più sedere al tavolo. Mettiamo tutto in un sacchetto e lo consegniamo a ciascuno per evitare contatti». Gli stessi indigenti, oggi sempre più numerosi, aspettano fuori di ritirare il takeaway contenente pasta calda, panino con salumi e formaggio, frutta, dolce e bottiglietta d’acqua. Vivono di beneficienza. «Tra loro ci sono molte badanti, donne delle pulizie, straniere e italiane, licenziate a causa della pandemia. Alcuni anziani, che venivano più per bisogno di compagnia che di cibo, adesso non possono intrattenersi a parlare con gli altri. Il senso di solitudine è aumentato a dismisura», conclude il signor Pino.

Se prima del diffondersi del covid-19, dunque, la convivialità poteva aprirsi alla vicinanza dettata dalla comune appartenenza alle fasce sociali più deboli, oggi nessuna prossimità fisica è concessa. Ormai lo abbiamo imparato. Tuttavia, testimonianze come queste dimostrano che il virus non è riuscito a spezzare quel filo sottile che unisce solidarietà, mobilitazione delle coscienze e lotta allo spreco, grazie all’attività incessante di cittadini, parrocchie e associazioni di volontariato, che a questo si dedicano quotidianamente con costante impegno e dedizione.

di Lorena Crisafulli