Hölderlin nell’ultimo libro di Giorgio Agamben

La “follia” del traduttore

Jean-Joseph Benjamin-Constant «Antigone presso il corpo di Polinice» (1868)
10 aprile 2021

Ottobre 1804. In una lettera, il poeta e filologo tedesco Hein-rich Voss commenta le traduzioni dell’Edipo e dell’Antigone di Sofocle, date alle stampe da Hölderlin nell’aprile di quello stesso anno: «Che ne dici del Sofocle di Hölderlin? Il nostro amico è davvero un pazzo furioso o questa parte si limita a recitarla e il suo Sofocle è una celata satira dei cattivi traduttori? Poche sere fa ero con Schiller e Goethe e li ho divertiti entrambi con questa traduzione. Leggi soltanto il iv coro dell’Antigone: avresti dovuto vedere come Schiller rideva!».

Quali erano le ragioni di un giudizio così sferzante? Perché persino Schiller e Goethe risero dell’opera di Hölderlin? Per scoprirlo occorre leggere il libro di Giorgio Agamben La follia di Hölderlin. Cronaca di una vita abitante, 1806-1843 (Torino, Einaudi, 2021, pagine 241, euro 20), che sorprende fin dalla sua struttura compositiva. Mentre la prima parte ospita uno scritto introduttivo, la seconda è una cronaca degli anni della vita di Hölderlin segnati dalla “follia” e da lui trascorsi, a partire dal 1807, a Tübingen, nella casa del falegname Ernst Zimmer.

Muovendo dalla distinzione di Benjamin tra storia e cronaca, Agamben mostra come il resoconto cronachistico sia particolarmente adatto a descrivere il periodo. La sezione più estesa del volume combina pertanto gli episodi della vita del poeta, grazie all’attenta citazione di brani tratti da diari, biografie ed epistolari, con i grandi avvenimenti della storia europea, quelli da cui Hölderlin fu a lungo escluso a causa del suo isolamento (il suo primo biografo, Wilhelm Waiblinger, riporta che egli soleva ripetere: «Niente mi accade»). Speciale attenzione è dedicata da Agamben alle lettere spedite da Hölderlin alla madre, che costituiscono un atto di accusa ironico e composto verso chi aveva incoraggiato con forza la sua segregazione. Queste lettere documentano inoltre una vivacità di spirito che si faticherebbe a interpretare come pazzia.

L’aspetto che generò maggiore turbamento nei contemporanei fu probabilmente l’originale concezione che Hölderlin aveva del lavoro del traduttore. Lungi dall’essere un problema meramente linguistico, quello che Hölderlin affronta nelle sue traduzioni è un problema anzitutto filosofico e politico, che egli stesso espone in una lettera inviata, nel dicembre 1801, all’amico Casimir Böhlendorf. Lì Hölderlin sostiene che l’elemento «nazionale» o «proprio» degli antichi greci consisteva nel «fuoco celeste» e nel «pathos sacro», mentre quello dei tedeschi moderni risiede nella «chiarezza dell’esposizione». Con l’avanzamento della cultura, l’elemento «nazionale» tende a perdersi e lo si padroneggia con sempre minor maestria, a favore invece di ciò che è «estraneo». Il poeta è chiamato a riconciliare queste due dimensioni, incaricandosi di un compito arduo. Secondo Hölderlin, il traduttore deve mirare a riprodurre e a imitare la lingua di partenza, seguendo il suo andamento sintattico e restituendo addirittura la composizione interna delle parole originarie. La traduzione deve avvicinare le lingue, in questo caso il greco e il tedesco, fino a generare tra loro una tensione creatrice.

Si tratta di uno sforzo smisurato, sovrumano, che costò a Hölderlin fatica e sacrifici. Nelle sue traduzioni da Sofocle ci si imbatte in neologismi e giochi stilistici, che sono stati a lungo considerati errori grossolani o scambiati per una pessima conoscenza del greco, ma che in realtà rientrano in un preciso programma teorico e pratico. Solo all’inizio del Novecento, con Norbert von Hellingrath, prima, e con Benjamin, poi, inizierà un graduale processo di rivalutazione.

Non stupisce che un tentativo così ardito fosse rigettato dalla cultura letteraria e filosofica del tempo, per la quale Hölderlin non poteva che essere un folle. Una diagnosi, certo, non priva di ambiguità, come emerge dalla maggior parte delle testimonianze riportate da Agamben, tra le quali spicca una lettera di Schelling a Hegel del giugno 1803. Schelling, che aveva da poco incontrato Hölderlin, ne aveva ricavato l’impressione di un uomo la cui mente appariva «completamente distrutta» e che si trovava «in uno stato di assoluta assenza di spirito». Eppure, quell’uomo era ancora in grado di tradurre dal greco. I suoi discorsi, proseguiva Schelling, «non lasciano pensare a una pazzia»; soltanto le sue maniere esteriori erano volutamente trasandate. Una descrizione contraddittoria e insieme illuminante, perché rivela, tra le righe, che la “follia” di Hölderlin non corrisponde tanto a una patologia, quanto a una condizione assunta volontariamente. La “pazzia” di Hölderlin deriva dalla presa di coscienza di un divario incolmabile: quello tra la grandezza dell’opera e l’impossibilità, tutta umana, di portarla a termine. Il poeta ha compreso che la disfatta è una componente essenziale dell’esistenza. Un’affermazione inaccettabile per la società della sua epoca. E che ancora oggi suona scandalosa.

di Giovanni Cerro