«Cento sonetti indie», l’ultimo libro di Luca Alvino

Il cantico della melatonina

 Il cantico  della melatonina   QUO-081
10 aprile 2021

«Per narrare bisogna essere imprudenti»; la frase di Francis Scott Fitzgerald posta a esergo del libro è una esplicita dichiarazione di intenti.

In Cento sonetti indie Luca Alvino riesce ad essere imprudente in tutto: non solo sceglie una forma metrica superclassica e desueta, ma intreccia lungo tutta la raccolta i materiali più disparati, mescolando cronache familiari, pagine di diario, dichiarazioni d’amore, cartelle cliniche, termini tecnici tratti dalle istruzioni per l’uso dei farmaci («Io voglio scrivere un sonetto al giorno, sarà la mia preziosa medicina, / come il caffè che prendo la mattina. / Sarà il mio litio, la mia olanzapina, / l’ibuprofene, la melatonina, / sarà la buonanotte ed il buongiorno») la gratitudine per il regalo inaspettato di un riff di chitarra dei Radiohead, meditazioni sul sollievo dello scrivere e persino una candida “lode alla quarantena” che suonerebbe fastidiosa in chiunque altro non avesse la sua ironica profondità, la sua allegra “giocoleria” nel condividere con il lettore esperienze molto intime.

Un’imprudenza radicale che si manifesta già dal testo che apre il libro, chiamando in causa l’ultimo tabù della cultura contemporanea, l’unico di cui non si può parlare senza essere guardati con commiserazione o diffidenza in un salotto bon ton, virtuale o meno. Alvino sceglie di inserire proprio quella parola che ogni corso di scrittura creativa consiglia di evitare come la peste, la parola «Dio». Vietatissima, inopportuna, pericolosamente pretenziosa, da matita rossa e blu insieme, sulla scrivania di qualsiasi editor che si rispetti. E pericolosamente vicina al cestino della carta. «Il primo verso — scrive con quella candida improntitudine che il lettore impara presto ad amare — lo sussurra Dio,/giunge dall’alto come una cometa,/ne osservo il corso quale anacoreta/ansioso di seguirne il luccichio». L’autore insiste a rendersi la vita complicata saltando in mezzo alle strettoie della forma chiusa come in una corsa a ostacoli. Dalla sua opera emerge, con il suo potente effetto di straniamento “inattuale”, insieme cantabile e e franto come un disco rotto, il paradosso della gabbia metrica, scrive Paolo Di Paolo nella bella prefazione che introduce il libro, dal titolo audacemente aulico Un’abitudine sublime (evidentemente la gaia sfrontatezza dell’autore è contagiosa). «Il poeta che si impone le regole — scrive Di Paolo — cava dalla costrizione qualcosa di prezioso, che nella libertà non avrebbe probabilmente trovato. Così, a chi dovesse chiedersi perché Alvino, all’inizio degli anni Venti del ventunesimo secolo, si dedica al sonetto con tale appassionata ostinazione, si potrebbe fornire una risposta semplice. Perché in quella costrizione ha trovato risorse espressive non a portata di mano».

Impossibile non citare Rilke, nei Quaderni di Malte Laurids Brigge, continua Di Paolo scusandosi per la citazione facile: i versi non sono «come crede la gente, sentimenti». Alla presunta facilità dello scrivere in versi, oppone la necessità, il peso, di un’esperienza biografica che non può essere travasata in parole come se fosse un gesto automatico. E Alvino, chiosa Di Paolo, disinnesca ogni pilota automatico addomesticando il sonetto, accogliendo volutamente termini tratti dalla vita quotidiana, «rime dozzinali e grossolane, / non particolarmente appariscenti». Non a caso, nella raccolta di saggi che ha pubblicato tre anni fa con Castelvecchi (Il dettaglio e l’infinito. Roth, Yehoshua e Salter) ha scelto di occuparsi di autori che, pur non negando l’importanza di costruzioni trascendenti cui ricondurre i dati disordinati del reale, preferiscono raffigurare i particolari dell’esistenza adottando un atteggiamento pragmatico, concreto. Bilanciando l’eccesso di teoria con la forza centripeta dell’immanenza, che riconduce ogni cosa alla sua “compromissione con l’esistere”.

Perché, scrive Alvino in Soltanto un giorno - come una farfalla, «Vivere è a volte molto complicato / le cause si accavallano agli effetti / tra giorni lieti ed altri maledetti / che ti lasciano esausto e senza fiato / Una gran confusione m’ha abbagliato / in questi anni folli ed imperfetti / perduto tra i miei stupidi progetti / e i gorghi inestricabili del fato».

di Silvia Guidi