Le difficoltà di tanti giovanissimi in questo tempo di pandemia

Come un orologio rotto

Stephen B. Whatley, «Adolescenza» (XXI secolo)
10 aprile 2021

Tre adolescenti raccontano il covid


Gli adolescenti sono indubbiamente una delle categorie che ha sofferto di più a causa di questo periodo di emergenza sanitaria. Camilla Barbieri, 16 anni, studentessa del liceo classico Tasso, Nicolò Saputi, 16 anni, studente del liceo scienze umane Giordano Bruno e Wally Galdieri, 19 anni, romana ma ora a Bologna, dove frequenta il primo anno al Dams, raccontano, in un dialogo ideale a distanza, i pensieri e le sensazioni che hanno caratterizzato la loro esperienza. Un vortice di emozioni contrastanti che non lascia indifferenti.

Il primo lockdown


Camilla
— Quando le scuole sono state chiuse la prima volta, a marzo 2020, i miei compagni e io abbiamo provato un misto di eccitazione, paura e confusione. Abbiamo esultato come quando si chiude tutto per la neve. Era quasi divertente l’idea di starsene un po’ a casa e di saltare la scuola. Dovevano essere due settimane. Ne parlavamo come si fa riguardo a un’elezione politica o a una notizia particolare al telegiornale. Era una questione preoccupante di cui discutere e scherzare all’occorrenza, ma nulla di più. Il giorno prima uscivamo da scuola come sempre. Era quasi primavera e c’era il sole. Parlavamo di vederci, di una festa, dell’ansia per una verifica e prendevamo l’autobus (come mi manca l’autobus, le persone, le risate e le chiacchierate sulla via di casa, mentre la città sembra sfilare intorno). Fermata dopo fermata ci salutavamo, con leggerezza, perché ci aspettava un altro giorno e poi un altro, e altri cento ancora di cose da fare, insieme. Il giorno dopo, scuole chiuse, e anche quello dopo. Eravamo in quarantena. Non sapevo nemmeno cosa volesse dire, pensavo fosse una cosa che succede solo nei film di science fiction. Le due settimane sono diventate un mese, e poi due e poi tre. Il mondo che conoscevo si è bloccato come un orologio rotto. Lo spettacolo di teatro che preparavo da mesi, il viaggio a Parigi, la gita scolastica, la festa, le uscite, i banchi di scuola, la fila alle macchinette e i cornetti la mattina, l’odore delle sigarette e il rumore del traffico. Ci hanno chiesto di imparare a convivere con una catastrofe e tutto questo in ventiquattro ore.

Nicolò — Ciò che davamo per scontato in precedenza ora non lo era più. Improvvisamente, siamo stati costretti a cambiare le nostre abitudini, modificare il nostro comportamento, pianificare la nostra esistenza. Ho avuto la sensazione di essere con le spalle al muro, bloccato da una forza invisibile. Mi sembrava tutto irreale e ancora oggi mi chiedo ingenuamente come possa un qualcosa di così infinitamente piccolo portare tanta sofferenza e dolore. Ogni giorno passava lento e sembrava fosse esattamente uguale a quello di prima. Mi sembrava di essere il protagonista del film Ricomincio da capo, di Harold Ramis.

Wally — Ero a Firenze quando è stato registrato il primo caso positivo in Italia e la sensazione era che fosse qualcosa di lontano da me. Sempre nello stesso giorno, visitando gli Uffizi, mi sono resa conto di essere circondata da mascherine ambulanti ma l’impressione, guardando quella marea di turisti in preda alla psicosi, era ancora che il covid fosse qualcosa che non mi riguardasse direttamente. Sono tornata a Roma e ho ripreso la scuola, non sapendo che quella sarebbe stata l’ultima settimana, l’ultima versione di greco, l’ultima campanella dell’ultimo giorno dell’ultimo anno. Penso che la televisione non abbia mai assolto la funzione di focolare domestico come durante l’emergenza sanitaria. Uno scenario del secolo scorso: la famiglia radunata attorno allo schermo affamata di notizie e di illusioni. Lock-down! Non sapevo nemmeno cosa si intendesse con questa parola così austera. L’ho scoperto in seguito.

La vita sospesa


Camilla
— Ogni giorno che passava era sempre tutto più lontano. Il mondo si era fermato ma bisognava ancora studiare, e rendere bene, ed essere bravi, come se niente fosse. Si continuava a fare i compiti, a subire interrogazioni, a sottostare alla sfiducia e allo scetticismo dei professori che non sapevano dove mettere le mani. Era un’agonia. A un certo punto mi sono arresa. Mi sono resa conto che le mie speranze non valevano più di uno slogan in tv. Erano una cosa da mettere sul comodino e guardare prima di andare a dormire, senza poterci fare niente. È stato come seppellire ogni giorno una parte della mia vita, e il coraggio di fare tutto questo non so nemmeno da dove l’ho tirato fuori. Sono stata egoista, all’inizio, e mi sentivo in colpa, perché la gente moriva e io volevo solo la mia vita indietro.

Nicolò — Non ho visto i miei amici se non da dietro uno schermo per tutta la durata dell’isolamento, con la triste conseguenza che con alcuni di loro, in assenza di un contatto fisico, i rapporti si sono deteriorati. Inoltre, molte persone che pensavo di conoscere bene hanno rivelato una parte della loro personalità a me sconosciuta. Durante quel periodo ho visto soffrire mia nonna, che mi chiedeva se tutto questo sarebbe finito e quando ci saremmo potuti riabbracciare, arrivando a commuoversi vedendomi in videochiamata.

Wally — Quel primo confinamento non ha rappresentato per me una violazione della mia libertà, del mio divertimento (sarà stata l’ansia per l’esame di maturità?). Ho approfittato di quei quasi tre mesi per vivere con i miei secondo una modalità differente da quella solita: scuola-pranzo-cena. Ho visto più film in quel periodo che nel resto degli ultimi anni! Ho ripreso a leggere, a riordinare parti di casa dimenticate e mi sono dedicata alla cucina, come ogni buon italiano. Ho festeggiato i miei 19 anni in videochiamata, spegnendo le candeline di una Sacher torte che le mie amiche mi avevano spedito a sorpresa e ho semplicemente aspettato che la situazione rientrasse.

Camilla — Sì, una catastrofe. Anzi due: una enorme e schiacciante e l’altra, la mia — la nostra — piccola, silenziosa e inascoltata, a ragione. E fa ancora male. Perché avevo sedici anni e ora ne ho diciassette, e certe cose non le posso riavere indietro quando tutto questo finirà. Certe cose non si rimandano all’anno dopo o a quello dopo ancora. A volte vorrei prendere un adulto, metterlo seduto e dirgli di chiudere gli occhi per un secondo e di immaginare che cosa vuol dire buttare via un anno su sedici (o su tredici o su dieci), non su quaranta o cinquanta o sessanta. Un anno intero o quasi, dove l’unica cosa rimasta era lo studio. Lo studio, nemmeno la scuola. Perché la scuola è quello che facciamo quando siamo insieme. È uscire di casa la mattina, è rincorrere un autobus, incontrare persone in corridoio, prendersi qualcosa da mangiare quando sei troppo nervoso per una versione e cercare di ripassare senza ridere col tuo compagno di banco. È avere progetti e speranze e imparare dagli altri. In quei tre mesi, piano, non solo me ne sono fatta una ragione, mi ci sono anche abituata, come tutti.

Wally — Il 4 maggio 2020 ha segnato uno spartiacque tra il prima e il dopo. Tutto ha preso un’altra piega. La sensazione era che fosse davvero finita e che i pareri dei virologi fossero lontani quasi quanto il covid. Mi sono, ci siamo, illusi che tutti gli sforzi fatti fossero stati ripagati e che, finalmente, potevamo lasciarci alle spalle i bollettini delle ore 18, le edizioni speciali dei telegiornali e gli interventi dell’allora presidente del Consiglio, Conte, in prima serata. Tutto sembrava essere tornato alla normalità e sì, l’unico fastidio era rappresentato dalle mascherine, ma anche quelle, questione di poche settimane e sarebbero sparite.

Camilla — Quando a maggio ho rivisto i miei amici ho pianto. Ma quando, a giugno, la scuola è finita e le misure si sono allentate ho avuto paura. Ho sentito l’ansia di tornare a una parvenza di normalità, di poter uscire di casa. In quei mesi di chiusura la mia vita era stata ridotta a qualcosa di così semplice! Nessuna aspettativa per il giorno dopo, nessuna ansia di nessun tipo, nessun obbligo o dovere o responsabilità, al di là del tenere in ordine la mia stanza, se ne avevo voglia. Mi ero abituata alla sicurezza di un rifugio tappato. Era come tornare a respirare di nuovo ma essere di nuovo libera mi spaventava.

La seconda ondata


Wally
— Mi ero appena trasferita a Bologna, giusto il tempo di lasciarmi travolgere dalla magia di questa città che non invecchia mai e mi sono trovata di nuovo chiusa in casa. Era arrivata la seconda ondata! Coprifuoco, zona gialla-rossa-“verdone”, tutte le certezze sono crollate, gli sforzi svaniti nel nulla, quella speranza che mi aveva animato fino all’estate è venuta meno. Ciò che è rimasto era la paura di continuare a perdere tempo.

Camilla — Ero così contenta di tornare a scuola a settembre! Mi illudevo che le cose sarebbero tornate alla normalità, che ci saremmo lasciati tutto alle spalle. Ma ho detestato il modo in cui ci hanno fatto tornare. Tutto quello che amavo della scuola, quello che è davvero importante, non c’era. Non era la vita che mi era mancata fino a stare male. Era cambiato tutto. Il susseguirsi delle aperture e delle chiusure è stato orribile, più stancante di qualunque altra cosa, e francamente offensivo. Il tempo di abituarsi a una situazione ed eccone subito un’altra. Non possiamo guardare più in là di una settimana, non possiamo sapere come andrà. E, come se non bastasse, in quanto giovani siamo accusati (in parte giustamente, per carità) di irresponsabilità, e non solo. Siamo costantemente chiamati al sacrificio e alla serietà e nessuno si preoccupa di come stiamo, di tutto quello che ci è stato tolto, di capire la nostra rabbia.

Nicolò — È toccato anche a me. Ho avuto il covid e ho provato sulla mia pelle quanto ci si senta soli chiusi dentro a una stanza, a mangiare fissando il muro con la sola compagnia della tv. Ho iniziato ad avere sintomi una mattina dello scorso mese di febbraio, avevo la febbre a 38,5 e non riuscivo ad alzarmi dal letto. È durato una settimana ma sono stato in isolamento per 19 giorni. Con la mia famiglia comunicavo via WhatsApp oppure da dietro la porta. Questo virus subdolo dovrebbe essere rinominato «Virus della solitudine» perché è questo che provoca e spesso a pagarne le conseguenze sono gli anziani, i quali, oltre ad avere un elevato rischio di morire se contagiati, rimangono soli senza vedere i propri nipoti e sono costretti ad affrontare i problemi della loro età autonomamente. Una volta uscito da casa, dopo un’infinità di giorni, mi sono sentito profondamente spaesato e colto da un imbarazzo che non so bene a cosa fosse dovuto, forse al fatto di non sapere più come comportarmi in mezzo ad altre persone, come se fossi estraneo a questo mondo.

Timori e speranze


Camilla
— Abbiamo avuto pazienza la prima volta. Abbiamo fatto del nostro meglio la seconda. E ora una terza! Siamo stanchi. Non possiamo chiedere di riavere indietro la nostra vita di prima ma abbiamo diritto almeno a una quotidianità normale.

Nicolò — Ho l’impressione che il covid mi stia togliendo gli anni più belli della mia vita, quelli in cui baciarsi, abbracciarsi ed essere spensierati dovrebbe essere la normalità. L’adolescenza è un passaggio fondamentale per diventare adulto e la domanda che spesso mi pongo è: che generazione sarà la mia? Crescere mi spaventa molto, perché sono consapevole che, alla mia età, è fondamentale sbagliare e imparare dai propri errori; ma come si può crescere restando chiusi dentro casa, senza poter uscire e fare esperienza?! L’unica nota positiva in tutto questo caos è che, avendo molto tempo libero, ho scoperto di saper fare molte cose e ho coltivato passioni che non sapevo neanche di avere, come ad esempio guardare i grandi classici della storia del cinema.

Wally — La malattia pandemica ci ha sottratto il tempo delle esperienze, dello svago, del divertimento disinteressato e assoluto. Ci ha sottratto la socialità, gli spazi dove dar sfogo alle nostre emozioni, i teatri, i concerti, le mostre, i luoghi necessari a un ventenne per sentirsi tale. Un mese fa, al festival di Sanremo, ho visto salire sul palco gli operatori dello spettacolo, di quel mondo a cui mi sono avvicinata la prima volta a soli tre anni, ed è stato impossibile frenare le lacrime. Lacrime di rabbia, di attaccamento alla vita, che non è questa; e per quanto si possa sminuire il problema dei “gggiovani”, questa situazione ha avuto un forte impatto su di noi e ci ha cambiato radicalmente. Quello che conservo, però, è quella giusta dose di accanimento necessario per rifiutare come permanente questo modello di vita. Durante il festival ho ascoltato la cover del gruppo Stato sociale Non è per sempre, degli Afterhours. Ecco, spero solo che “Non è per sempre”.

di Marina Piccone