Mi è grata cosa concludere le riflessioni sul culto di Dante dei predecessori di Papa Francesco, dedicandole a Benedetto XVI. Nell’anno successivo alla sua elezione la Libera Università Maria Santissima Assunta, oggi Lumsa, per ricordare l’Altissimi Cantus di Paolo VI, organizzò il 22 febbraio 2006, festa della Cattedra di San Pietro, il convegno «Dante e i Papi», in collaborazione con il Pontificio Consiglio della cultura e col Centro dantesco dei Frati minori conventuali di Ravenna. Si produsse così l’abbrivo, da parte di dantisti, medievisti e teologi, per indagare un settore poco noto della dantistica, un filone aureo inesauribile. Gli Atti furono donati a Benedetto XVI, nell’udienza da lui dedicata al 70° della Lumsa (12 novembre 2009), dal rettore Giuseppe Dalla Torre in memoria della Fondatrice, Madre Luigia Tincani, appassionata cultrice di Dante, e di Giorgio Petrocchi, Direttore dal 1971 del Magistero Maria SS. Assunta e padre della filologia dantesca contemporanea.
Se dovessimo circoscrivere il dantismo di Benedetto XVI, potremmo trovare l’alfa nella Fides et ratio di Giovanni Paolo
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e l’omega nella Lumen fidei di Papa Francesco, un percorso squisitamente teologico all’insegna dell’ermeneutica della continuità. Come la giovinezza di Dante volle «trovare conforto nella filosofia e frequentare le scuole de li religiosi e le disputazioni de li filosofanti» (Convivio,
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, 7) così la giovinezza di Joseph Ratzinger, dopo la tempesta degli anni di guerra, conosce l’approdo sicuro della filosofia e della teologia. La tempesta nei mari della Storia, ricorda l’episodio di Matteo, 8, 23-2, nel quale il Figlio di Dio salva dal naufragio la barca degli Apostoli, che sarà riecheggiato nelle parole cardinale Ratzinger (dopo pochi giorni eletto Pontefice): «Signore, spesso la tua Chiesa ci sembra una barca che sta per affondare, una barca che fa acqua da tutte le parti. (…) Abbi pietà della tua Chiesa!» (Meditazioni della Via Crucis al Colosseo, 25 marzo 2005). Dopo gli orrori della seconda guerra mondiale la formazione teologica del futuro Papa, a Frisinga, precede di un anno l’ingresso (1947) nel seminario Herzogliches Georgianum di Monaco di Baviera, ma continuerà gli studi presso l’università Ludwig Maximilian fino al 1950. Del 1953 è la Tesi di dottorato sulla dottrina agostiniana della Chiesa, mentre al 1955 appartiene la dissertazione sulla teologia della storia in san Bonaventura. La carriera accademica di Ratzinger, nelle università di Monaco, Frisinga e Bonn, costituisce la premessa essenziale per la sua partecipazione, come consulente teologico, al concilio Vaticano
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, quando ebbe modo di confrontarsi con Henri-Marie de Lubac, Jean Daniélou, Yves Congar, Gérard Philips, Hans Küng e Edward Schillebeeckx. Nel decennio successivo Ratzinger, mentre difende l’eredità del Vaticano
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, all’università di Ratisbona, fonda la rivista teologica Communio (1972) con de Lubac, Walter Kasper e Hans Urs von Balthasar. È un orizzonte teorico che comprenderà anche Romano Guardini e che non esclude Dante poiché sia von Balthasar, con l’opera Stili laicali (1965), che Guardini, a partire da Der Engel in Dantes gottlicher Komodie (1937) daranno spazio nel loro pensiero alla teologia dantesca. Il 24 marzo 1977 Ratzinger riceve da Paolo
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, che lo definì «un insigne maestro di teologia», la nomina di arcivescovo di Monaco e Frisinga e, pochi mesi dopo, la berretta cardinalizia. Dopo la partecipazione ai conclavi che elessero nel 1978 Giovanni Paolo
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e Giovanni Paolo II, al 1981 appartiene l’elezione a Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, a Presidente della Commissione teologica internazionale. Nel 2003 Giovanni Paolo
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lo nomina Presidente della commissione riguardante il Compendio del Catechismo della Chiesa cattolica. Alla morte di Wojtyła, nell’omelia della Missa pro eligendo Romano Pontifice (18 aprile 2005), Ratzinger preannuncia l’imminente pontificato, opponendo alla «dittatura del relativismo» la «misura del vero umanesimo, il Figlio di Dio, criterio per discernere tra vero e falso, tra inganno e verità»; è eletto Pontefice il 19 aprile 2005: «Ho voluto chiamarmi Benedetto
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per riallacciarmi idealmente al venerato Pontefice Benedetto
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, che ha guidato la Chiesa in un periodo travagliato a causa del primo conflitto mondiale. (…)Il nome Benedetto evoca inoltre la straordinaria figura del grande Patriarca del monachesimo occidentale, san Benedetto da Norcia (…), punto di riferimento per l’unità dell’Europa e un forte richiamo alle irrinunciabili radici cristiane della sua cultura e della sua civiltà» (prima udienza generale, 27 aprile 2005). Se considerassimo tali dichiarazioni sub specie Dantis, potremmo trovare l’anello di congiunzione tra Giovanni Paolo
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e Benedetto XVI. Infatti il verso-chiave del dantismo woitiliano «la verità che tanto ci sublima» (Paradiso, XXII, 42), riecheggiato nell’avvìo della Fides et ratio, riguarda le parole di san Benedetto, nel cielo di Saturno, per ribadire che la Verità innalza i credenti fino a Dio. Seguendo codeste tracce, arriviamo al nesso fede-ragione, che segna fin dal suo inizio il magistero di Benedetto XVI: la cronologia delle citazioni dantesche dal 2005 al 2011 si intreccia con i tre discorsi teologici di Regensburg (12 settembre 2006), Roma-La Sapienza (discorso previsto per il 17 gennaio 2008) e Parigi-Collegès des Bernardins (12 settembre 2008), riferibili a un tema centrale del pensiero teologico di Ratzinger. Citando «O luce etterna che sola in te sidi, /sola t’intendi, e da te intelletta /e intendente te ami e arridi» (Paradiso, XXXIII, 124-26), così Benedetto
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commenta: «Ancora più sconvolgente di questa rivelazione di Dio come cerchio trinitario di conoscenza e amore è la percezione di un volto umano, il volto di Gesù Cristo(…), questo Dio ha un volto umano e, possiamo aggiungere, un cuore umano. In questa visione di Dante si mostra, da una parte, la continuità tra la fede cristiana in Dio e la ricerca sviluppata dalla ragione e dal mondo delle religioni» (Discorso ai partecipanti, incontro Pontificio Consiglio Cor Unum 23 gennaio 2006). A Regensburg, partendo dalla convinzione che non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio, il Papa afferma: «Penso che in questo punto si manifesti la profonda concordanza tra ciò che è greco nel senso migliore e ciò che è fede in Dio sul fondamento della Bibbia. (…) Dio agisce con logos. Logos significa insieme ragione e parola, una ragione che è creatrice e capace di comunicarsi ma, appunto come ragione. (…) Il Dio veramente divino è quel Dio che si è mostrato come logos e come logos ha agito e agisce pieno di amore in nostro favore». L’incontro tra il pensiero greco e la religione cristiana è stato decisivo, perché si tratta dell’incontro «tra fede e ragione». Per tal motivo la teologia non è soltanto una disciplina storica e umano-scientifica, «ma come interrogativo sulla ragione della fede deve avere il suo posto nell’università e nel vasto dialogo delle scienze». Nel medioevo alle facoltà di filosofia e teologia «era affidata la ricerca sull’essere uomo nella sua totalità e con ciò il compito di tener desta la sensibilità per la verità» (Allocuzione, La Sapienza). Ancora nel 2012 (Udienza generale del 21 novembre) il Papa afferma che la fede permette un sapere autentico su Dio e che «Dio si è avvicinato all’uomo, si è offerto alla sua conoscenza, accondiscendendo al limite creaturale della ragione. Allo stesso tempo Dio, con la sua grazia, illumina la ragione, le apre orizzonti nuovi, incommensurabili e infiniti». Codeste affermazioni, e non solo codeste, ci permettono di individuare le consonanze che avvicinano il pensiero teologico di Benedetto
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alla «ricerca» di Dante nella Commedia: da una parte la straordinaria sintesi, che Dante propone, della filosofia greca e latina con le Sacre Scritture, dall’altra il rapporto tra la ragione, «Matto è chi spera che nostra ragione / possa trascorrer la infinita via / che tiene una sustanza in tre persone» (Purgatorio, III, 34-36) e la fede: «fede è sustanza di cose sperate/ e argomento de le non parventi; / e questa pare a me sua quiditate» (Paradiso,
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, 64-66). Il neotomismo, che aveva caratterizzato il dantismo di Leone
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e di Benedetto
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trova il suo naturale compimento nel dantismo di Benedetto
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: «È merito storico di san Tommaso d’Aquino di aver messo in luce l’autonomia della filosofia e, con essa, il diritto e la responsabilità propri della ragione che s’interroga in base alle sue forze» (Allocuzione, La Sapienza), ma senza dimenticare che Dante affida proprio a Tommaso l’elogio di San Francesco (il canto
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del Paradiso è richiamato nell’udienza generale del 27 gennaio 2010). Se alcune affermazioni teologiche sono state contraddette dalla Storia, è anche vero che «la storia dei santi (…) dimostra la verità della fede nel suo nucleo essenziale» che è l’Amore, oggetto della prima enciclica Deus caritas est (25 dicembre 2005): «È stata questa consapevolezza che mi ha indotto a scegliere l’amore come tema della mia prima Enciclica. Volevo tentare di esprimere per il nostro tempo e per la nostra esistenza qualcosa di quello che Dante nella sua visione ha ricapitolato in modo audace. Egli narra di una “vista” che “s’avvalorava” (Paradiso,
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112-114) mentre egli guardava e lo mutava interiormente. Si tratta proprio di questo: che la fede diventi una visione-comprensione che ci trasforma» (Discorso Cor Unum). Senza scarto, senza interruzione, senza rivolgimenti, nel nome di Dante si realizza l’ermeneutica della continuità: «La fede è luce che viene dal futuro, che schiude davanti a noi orizzonti grandi, e ci porta al di là del nostro “io” isolato verso l’ampiezza della comunione. Comprendiamo allora che la fede non abita nel buio; che essa è una luce per le nostre tenebre. Dante, nella Divina Commedia, dopo aver confessato la sua fede davanti a san Pietro, la descrive come una “favilla,/che si dilata in fiamma poi vivace / e come stella in cielo in me scintilla”. Proprio di questa luce della fede vorrei parlare”» (Papa Francesco, Lumen fidei, 29 giugno 2013).
di
Gabriella M. Di Paola Dollorenzo