Reportage

Adivasi, l’altra faccia dell’India

Una giovane appartenente a una comunità indigena indiana. Il termine Adivasi, “abitanti originari”, è il termine hindi col quale si indica l'eterogeneo insieme dei popoli aborigeni dell'India.
09 aprile 2021

Adivasi è un termine collettivo usato per definire le tribù indigene, sedentarie o semi-stanziali, che vivono in India. Queste comunità rappresentavano l’8,6 per cento della popolazione indiana (poco più di 104 milioni di persone) nel 2011 ed i gruppi etnici che ne fanno parte sono almeno 705. Questo, almeno, è il numero dei gruppi riconosciuto dalle autorità, ma ce ne sono molti altri che non hanno ottenuto l’agognato riconoscimento e il loro numero è dunque più alto rispetto a quanto emerge dai dati ufficiali. La più grande concentrazione di popolazioni indigene è presente in sette Stati dell’India nordorientale come Nagaland, Meghalaya ed Arunachal Pradesh, dove sono la maggioranza degli abitanti ed anche nell’India Centrale, in una fascia compresa tra Rajhastan e Bengala Occidentale.

Gli indigeni indiani sono la seconda popolazione tribale più grande al mondo dopo quella africana e il loro futuro è seriamente a rischio. L’espansione delle attività industriali minaccia le loro radici ancestrali. Molte comunità sono state costrette ad abbandonare i loro territori, mentre altre lottano per proteggere le proprie case oppure per ottenere un’equa compensazione per quello che stanno perdendo. La deforestazione, oltre a costituire un grave danno ambientale, sta provocando la scomparsa di quelle specie che sono necessarie per la vita quotidiana di questi popoli che fanno affidamento sulle risorse della foresta e sulla selvaggina per alimentarsi.

La sicurezza alimentare delle popolazioni indigene ed anche la loro sopravvivenza sono dunque in grave pericolo.

Le tribù indigene sono parte della fascia più povera della popolazione indiana e sono afflitte dalla miseria in proporzione maggiore rispetto a quanto sperimentato da altri cittadini del Paese. Nel biennio 2015-2016, come emerso dal National Family Health Survey, il 45.9 per cento degli indigeni faceva parte della fascia più povera della popolazione contro il 26.6 dei membri delle caste, il 18.3 per cento dei membri delle caste svantaggiate e il 25.3 di quelli la cui casta era sconosciuta. La riduzione del livello di povertà, nell’arco di dieci anni, è apparsa marginale e non ha superato il quattro per cento. In ogni caso più dei due terzi degli indigeni è colpito da significativi livelli di indigenza, un terzo dei bambini sotto i cinque anni di età è afflitto da malnutrizione ed è sottopeso, mentre questa percentuale nella popolazione complessiva è di poco superiore al venti per cento.

Gli Adivasi, che generalmente vivono in foreste remote e che parlano linguaggi tribali non compresi da altri, devono superare le barriere sociali e l’apatia istituzionale che, in alcuni casi, rendono complessa persino la denuncia delle atrocità subite. L’isolamento fisico dalle comunità non tribali e la mancanza di risorse hanno portato alla nascita di stereotipi negativi che vedono negli Adivasi dei gruppi non civilizzati, primitivi e senza alcuna abilità. Questi stereotipi vengono spesso utilizzati per giustificarne l’esclusione da alcuni servizi sociali e opportunità di tipo economico. Gli Adivasi usufruiscono con difficoltà del sistema sanitario indiano a causa della lontananza dalle città e delle barriere linguistiche. Lo stesso può dirsi, almeno in parte, per quanto riguarda il sistema scolastico. Lo Stato, dal canto suo, non ha offerto alcun tipo di soluzione.

C’è anche un altro dato che va tenuto in considerazione. Le sofferenze delle tribù marginalizzate sono state sfruttate dai Naxaliti, un movimento di guerriglieri maoisti che sin dal 1967 ha l’obiettivo di rovesciare il governo indiano tramite una rivoluzione contadina. I maoisti, che ricevono l’appoggio di una parte degli indigeni, usano le foreste come copertura e mettono in atto tattiche di guerriglia volte a colpire le forze di sicurezza. L’assenza dello Stato nei distretti più colpiti ha permesso ai ribelli di subentrare e di riempire il vuoto mettendo in piedi istituzioni parallele e funzionanti. Le roccaforti dei Naxaliti sono concentrate in quei territori tribali che sono stati ceduti a compagnie minerarie e i cui abitanti hanno subito gravi lesioni dei propri diritti. Uno degli obiettivi primari di Naxaliti è quello di appropriarsi delle terre di chi è percepito come oppressore e di redistribuirle ai contadini. La scelta di attaccare progetti infrastrutturali legati allo sviluppo ha avuto l’effetto paradossale di frenare la crescita dell’economia indiana e quindi di perpetuare il ciclo di povertà e marginalizzazione della popolazione rurale.

Quest’ultima ha subito gli effetti più deleteri della ribellione dato che i maoisti hanno giustiziato presunti informatori delle autorità ed hanno ottenuto l’obbedienza della popolazione più tramite la paura che con il convincimento. Anche la contro-insurrezione del governo, come riferiscono numerosi analisti, ha causato gravi violazioni dei diritti umani ed è sfociata in alcune uccisioni extra-giudiziarie di civili sospettati di far parte dell’insurrezione.

Tuttavia, il governo indiano è riuscito a ridimensionare, nel giro di un decennio, l’area operativa dei ribelli grazie a una serie di operazioni militari e a pacchetti di aiuti economici elargiti a quelle zone divenute basi di reclutamento dei maoisti. Il dato sui distretti colpiti dall’insurrezione è così passato dai duecento di dieci anni fa ai cinquanta del 2020. Il numero e la potenza degli attacchi dei ribelli si sono ridotti anche se non del tutto azzerati. Nel marzo del 2021, ad esempio, ventitré membri delle forze di sicurezza indiane hanno perso la vita nel Chattisgarh in seguito ad un agguato dei maoisti.

Le continue violenze hanno spinto centocinquanta abitanti del Chhattisgarh, concentrati nella zona di Bastar, a pianificare una marcia pacifica con l’obiettivo di porre fine agli scontri tra Naxaliti e forze di sicurezza. Il percorso, lungo duecentoventidue chilometri, aveva come punto di partenza il quartier generale dei maoisti e quello di arrivo la sede del governo statale. Un sondaggio realizzato nell’ottobre del 2020 ha dimostrato quanto sia grande la voglia di pace degli Adivasi di Bastar. Questi ultimi si erano espressi, quasi all’unanimità, in favore di un dialogo pacifico tra le parti per porre termine allo spargimento di sangue che, negli ultimi venti anni, ha portato alla perdita di dodicimila vite.

La speranza è che proprio gli Adivasi, grazie ad iniziative come questa, possano passare dall’essere marginali a divenire costruttori di un futuro di pace.

di Andrea Walton