A colloquio con suor Denise Coghlan direttrice del Jrs sul processo di sminamento in Cambogia

Speranza nel futuro

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08 aprile 2021

La Cambogia fa grandi passi in avanti. I suoi territori sono tra le aree più contaminate al mondo dalle mine antiuomo. È una piaga che si estende per 817 chilometri quadrati, secondo le stime del governo. Un triste primato che il Paese condivide con Afghanistan e Iraq. «In questi anni abbiamo bonificato molti campi minati e ridotto gli incidenti annui da seimila a circa sessanta. La situazione migliora di continuo. I sopravvissuti sono forti ed è un grande dono dello Spirito Santo per noi vedere questa resilienza». Lo dichiara a «L’Osservatore Romano» suor Denise Coghlan, direttrice del Jesuit Refugee Service cambogiano, che nel 1997 fu tra i vincitori del premio Nobel per la pace assegnato alla Campagna internazionale per la messa al bando delle mine antiuomo (Icbl). In occasione della Giornata mondiale contro le mine, che si celebra ogni 4 aprile, la religiosa ribadisce che il “grande compito” è quello di riuscire a terminare lo sminamento del Paese entro il 2025.

L’utilizzo di questi ordigni in Cambogia risale agli anni Sessanta, ma raggiunse il culmine negli anni Ottanta durante la guerra cambogiano-vietnamita. Nel 1982 Tun Channareth, un combattente della resistenza che da giovane dovette abbandonare la sua casa su pressione dei khmer rossi, mise il piede su una mina e perse gli arti inferiori. «Quando fu ferito — racconta la suora australiana — non desiderò altro che morire. Tornato a casa era disperato perché aveva due bambini e la moglie era incinta di un terzo. Finché un giorno la figlia gli disse: “Non è giusto che tutti gli altri ragazzi hanno un baht thailandese da spendere al mercato, mentre tu te ne stai seduto senza fare nulla”. Questo lo spinse a seguire dei corsi di formazione per acquisire nuove competenze». Dieci anni dopo l’incidente tornò in patria dove iniziò a produrre carrozzine. Diventato attivista per i diritti delle persone con disabilità, avviò in Cambogia la campagna per la messa al bando delle mine. Ciò gli valse il premio Nobel che ritirò insieme a suor Denise e agli altri della Icbl. In quegli stessi anni riuscì a crescere sei figli che hanno potuto studiare, lavorare e dargli la gioia di essere nonno.

Oggi Channareth con altri sopravvissuti coordina gli aiuti dei gesuiti nei centri abitati più isolati. «Aiutano le persone a condividere le loro storie e a progettare il futuro — spiega la direttrice del Jrs — cercano di riunire il villaggio in modo che si possa parlare dei diritti e dei bisogni dei disabili insieme agli altri abitanti, ai leader locali e ai politici del governo». Così, si crea consapevolezza e si cerca di evitare l’isolamento. A volte una persona è ferita così gravemente da non poter aiutare più la propria famiglia. Se si fa male un genitore viene a mancare il sostegno economico primario. Sono momenti di assoluta disperazione. L’incoraggiamento di chi ha sofferto lo stesso dramma può fare ritrovare la speranza nell’avvenire. I gesuiti assicurano anche un supporto materiale, dice la suora. «Li aiutano con l'alloggio, i servizi igienici, le sedie a rotelle, con sovvenzioni che gli permettano di produrre reddito. Li indirizzano per ottenere le protesi, danno loro riso e cibo in caso di emergenza».

L’esplosione di una mina cambia la vita per sempre. In un istante. Accade in genere mentre si lavora in campagna o passando su un sentiero non segnalato. Quando succede ai bambini è ancora più drammatico, ma le loro storie sono spesso degli esempi di rinascita. «C’era un bambino che andava a scuola in bicicletta — ricorda la religiosa — mentre attraversava un ponte una mina esplose facendogli perdere una gamba. In ospedale il suo povero padre piangeva a squarciagola. Questo ragazzo è cresciuto e adesso ha un figlio e gestisce un piccolo hotel a Siem Reap». Tanti altri giovani invalidi cercano una moglie, un marito e un impiego. Ma occorre tempo prima che le ferite del corpo e dell’anima si possano rimarginare. Per questo è fondamentale il lavoro di persone come il “vescovo delle carrozzine”, Enrique Figaredo Alvargonzalez, prefetto apostolico di Hattambang, che nel 2001 ha fondato l’Arrupe center. Un luogo dove le persone con disabilità studiano, ricevono le cure e opportunità di lavoro. «I ragazzi feriti dalle mine — sottolinea suor Denise — ci mostrano cosa sia davvero il coraggio, la resilienza e la speranza nel futuro». Tutto questo è possibile anche grazie al dialogo interreligioso dice la direttrice del Jrs locale. La quasi totalità della popolazione è buddista ma c’è un rapporto intimo con le minoranze cristiana, induista, musulmana ed ebrea. «Durante la campagna di sensibilizzazione contro le mine abbiamo organizzato delle cerimonie religiose in cui pregavamo tutti insieme. Ho visto solo persone che fanno del loro meglio per andare avanti nella vita e per superare le disgrazie». La speranza dei sopravvissuti è anzitutto quella di vivere con dignità e far rispettare i propri diritti. La compassione li trasforma in membri di una società più felice, in cui ognuno è impegnato verso gli altri. In questi decenni molto è stato fatto.

Secondo le stime dell’autorità governativa antimine (Cmaa) dal 1979 a oggi è stato distrutto oltre un quarto dei 4 milioni di ordigni antiuomo presenti. Nel 2002 il 46 per cento dei villaggi cambogiani era ancora infestato da mine mentre oggi lo è solo il 18 per cento. Il Landmine monitor 2020 rileva che negli ultimi venti anni gli incidenti generici sono passati da 858 a 77. Nessun Paese al mondo è migliorato così tanto. Il successo è anche il frutto della campagna di sensibilizzazione di Icbl, che ha visto lavorare insieme la società civile, il governo e la Comunità internazionale. A quest’ultima, conclude suor Denise, «chiediamo un impegno ancora maggiore di modo che tutte le mine nel mondo possano finalmente essere eliminate entro il 2025».

di Giordano Contu