La penna d’oca
e il pennello

Baudelaire fotografato da Etienne Carjat (1862)
08 aprile 2021

Non solo poeta. Anche critico d’arte, e d’eccelsa levatura. In Baudelaire l’acutezza di pensiero, di fronte a una pagina su cui vergherà i suoi versi, ha la stessa valenza dell’illuminante scandaglio con cui ispezionerà un quadro. Alla luce di una genialità capace di coniugare sintesi ed analisi, in lui s’intrecciano poesia e arte.

In lui si sublimano la penna d’oca e il pennello. Gli scritti sull’arte composti da Baudelaire compongono un libro intimamente unitario per la costanza dei temi e delle figure che si avvicendano, assecondando il ritmo libero e imprevedibile della contingenza e più ancora per la forza nativa di un temperamento e di un metodo entro cui la cultura romantica — da Balzac a Delacroix, da Poe a Wagner — si trasforma, come osservava il critico letterario Ezio Raimondi, in «una speculazione appassionata e intransigente sull’arte moderna e sui suoi rapporti con lo spirito borghese della nuova società industriale». Rapporti difficili e oscuri.

Per Baudelaire vedere un quadro è, al contempo, un atto di ricezione e di pensiero, dove la parola svolge un ruolo nevralgico nell’illuminare il momento riflesso dell’esperienza, prolungandosi in un nuovo universo di idées e di reveries: un universo in cui viene testata la vitalità stessa delle immagini passate in rassegna. A testimonianza del legame tra la figura del letterato e la figura del critico d’arte, si riscontra che i suoi scritti d’arte si propongono anche come una sorta di romanzo, indipendentemente dal suo museo di modelli pittorici, con la logica di una scrittura che rappresenta sé stessa e costruisce la sua storia. Quello di Baudelaire è il racconto di un viaggio critico che si sviluppa attraverso il mondo figurativo contemporaneo e le sue istituzioni letterarie.

Un tratto distintivo dei suoi scritti è la perentorietà con cui formula i giudizi. Una perentorietà che esclude zone d’ombra. «Vi sono due modi — afferma — per diventare famoso: o accumulando di anno in anno successi, o con un colpo solo clamoroso. Quest’ultimo è il mezzo più originale».

Quando è chiamato a valutare l’opera di Delacroix, Baudelaire scrive che l’artista francese è «senz’altro il pittore più originale dei tempi antichi e moderni». E poi aggiunge: «Nessuno dei suoi amici, anche i più entusiasti, ha avuto il coraggio di dirlo con semplicità, la crudezza e l’impudenza con cui lo facciamo noi». La difesa di Delacroix è uno dei fiori all’occhiello della narrativa di Baudelaire sul piano della critica d’arte.

In merito, eloquente è questo passo: «Grazie alla giustizia tardiva dei crepuscoli che stemperano i rancori e trascinano a poco a poco nella tomba ogni ostacolo, non siamo più ai tempi in cui il nome di Delacroix era un’occasione per un segno di croce ai passatisti, ed un simbolo di alleanza per tutte le opposizioni, intelligenti o meno che fossero; quei bei tempi sono finiti. Delacroix — preconizza Baudelaire — resterà sempre in qualche modo contestato, quel tanto che occorre per aggiungere qualche bagliore alla sua aureola. E tanto meglio allora! Egli ha il diritto di essere sempre giovane, poiché non ci ha ingannato lui, non ci ha mentito come certi idoli ingrati che abbiamo portato nei nostri pantheon. Delacroix non è ancora dell’Accademia, ma moralmente ne fa già parte; da un pezzo egli ha detto tutto, detto tutto ciò che occorre per essere il primo».

Altrettanto appassionato è l’elogio che Baudelaire tesse di Ingres, di cui condivide il rifiuto di non esporre al Salon, segno della volontà di distinguersi dagli «imbrattacarte». «Ha ragione Ingres a tenersi lontano dal Salon — scrive —. Il suo mirabile talento resta sempre più o meno travolto in mezzo alla baraonda di mostre, dove il pubblico, stordito ed affaticato, subisce l’imperio di chi grida più forte». Quindi chiosa: «Ci manca la lingua per lodare degnamente la Stratonice, un quadro da far stupire Poussin, la grande Odalisque, che avrebbe turbato Raffaello».

Baudelaire non solo spicca come critico d’arte, ma anche come teorico della critica d’arte. Ne è prova quell’interrogativo di fondo ricorrente nei suoi scritti: a che serve la critica? Un interrogativo che definisce «enorme e terribile».

«L’artista — afferma — rimprovera per prima cosa alla critica di non poter insegnare nulla al borghese, il quale non vuole dipingere né poetare, né all’arte, in quanto la critica è uscita proprio dalle sue viscere. E tuttavia quanti artisti di questo nostro tempo devono solo alla critica la loro misera fama! Qui sta forse il vero rimprovero da muoverle».

Per Baudelaire la migliore critica è «dilettosa e poetica». Bandisce, di conseguenza, una critica «fredda e algebrica» che con il pretesto di spiegare tutto «non sente né odio né amore e si spoglia deliberatamente di ogni traccia di temperamento».

La critica d’arte «deve essere appassionata, politica, vale a dire condotta da un punto di vista esclusivo, ma tale da aprire il più ampio degli orizzonti». Esaltare la linea a detrimento del colore, o il colore a spese della linea, è «fuori di dubbio un punto di vista», ma non è una visuale né ampia né corretta, e rivela «una grande ignoranza di ogni destino particolare».

Il problema è che si ignora in quale dose la natura abbia mescolato in ogni ingegno il gusto della linea e il gusto del colore, e per quali misteriosi procedimenti «la natura operi tale fusione il cui esito è un quadro».

di Gabriele Nicolò