500 anni di evangelizzazione nelle Filippine

Ascoltare l’umanità sofferente
e annunciare la speranza

Rievocazione della prima messa celebrata 500 anni fa sull’isola di Limasawa, la Domenica di Pasqua del 1521
07 aprile 2021

Il cardinale Advincula, arcivescovo di Manila,
sul senso della celebrazione giubilare


«Il Giubileo della Chiesa filippina è una preziosa opportunità per ascoltare la volontà di Dio e per ascoltare l’umanità sofferente di oggi. È, inoltre, il richiamo a condividere il dono della fede che abbiamo ricevuto dai nostri padri, una vocazione alla missione ad gentes»: così il cardinale Jose F. Advincula, 69 anni, nominato da Papa Francesco arcivescovo di Manila, illustra a «L’Osservatore Romano» lo spirito con cui la comunità dei cattolici nelle Filippine vive la celebrazione dei 500 anni dall’arrivo del Vangelo nell’arcipelago (1521-2021), ufficialmente avviata la Domenica di Pasqua.

Eminenza qual è il senso di questa celebrazione giubilare?

È un momento storico per la nostra Chiesa. È un tempo di grazia in cui chiediamo a Dio la luce per guardare al passato e fare memoria dell’inestimabile dono ricevuto: Cristo Gesù, il suo Vangelo, il suo messaggio di salvezza che ha cambiato per sempre la storia del nostro popolo. La memoria del dono genera un cuore colmo di gratitudine e un moto di lode verso Dio per le “grandi cose” che egli ha compiuto in questi 500 anni. Il Giubileo, allora, diventa un presente in cui mettersi alla sequela di Cristo Gesù e, con fede, testimoniare il suo amore all’uomo di oggi, disorientato e sofferente, soprattutto ai più poveri e vulnerabili. Il fatto che l’anniversario cada in tempo di pandemia è un segno per tutti noi: è una chiamata di Dio a essere annunciatori di speranza, a essere strumenti della misericordia e della compassione di Dio verso l’umanità.

Quali saranno i binari, le coordinate spirituali e pastorali per questo tempo?

Direi: ascoltare e annunciare. Il Giubileo è in primis una preziosa opportunità per ascoltare la voce e la volontà di Dio, per ascoltare l’umanità sofferente di oggi, i suoi bisogni, le sue gioie e le speranze; per ascoltare le “periferie esistenziali” e anche le voci che ci giungono dall’esterno della nazione: tutto questo sarà fonte di arricchimento. Riconosciamo, inoltre, il richiamo di Dio a condividere il dono della fede che abbiamo ricevuto dai nostri padri, e dunque la nostra vocazione, in modo speciale, all’opera della missione ad gentes. Annunciamo all’uomo di oggi, ferito dalla pandemia e stordito dalla globalizzazione, Gesù Cristo risorto che consola, che dà luce, che salva, che ama, che opera.

Le è stato affidato il popolo di Dio nell’arcidiocesi di Manila. Come si prepara a questo servizio?

Il mio motto episcopale è Audiam, cioè ascolterò. Il punto di partenza non può che essere questo: mettersi in ascolto del popolo di Dio che il Papa mi chiama a servire. Sono stato profondamente sorpreso di essere stato scelto come cardinale a novembre e ora come guida dell’arcidiocesi della capitale. Non posso che confidare in Dio: non sono un buon oratore ma, data la mia formazione da consulente psicologo, la dimensione dell’ascolto è centrale nel mio ministero pastorale. Tutto inizia dall’ascoltare Dio, la sua Parola, la sua volontà. Ci si pone, poi, in ascolto di se stessi e del seme dello Spirito che è in ciascuno di noi. E ci si pone in ascolto del prossimo: ascolterò i preti, i consacrati, i fedeli e tutte le persone di buona volontà. Dall’ascolto e dal dialogo costante scaturiscono le decisioni, a ogni livello, orientate alla volontà di Dio.

Lei è un Pastore che ha dato una speciale attenzione alle “stazioni missionarie”: può spiegare perché?

Le stazioni missionarie sono una forma pastorale utile a far sentire la Chiesa vicina alla gente. Nell’arcidiocesi di Capiz, sull’isola di Panay, nelle Filippine centrali, dove sono nato e dove ho svolto finora il mio ministero apostolico, le abbiamo create in tutti quei territori di montagna o nei villaggi isolati dove vivono popolazioni indigene e dove un sacerdote poteva recarsi solo di rado, anche solo una volta l’anno. Grazie a una stazione missionaria, la comunità locale, godendo della presenza di un sacerdote residente, viene stimolata a costruire la Chiesa, a coadiuvarlo nel lavoro pastorale. Nella nostra esperienza abbiamo visto che essa contribuisce a creare comunione e comunità. A Capiz abbiamo 35 parrocchie e 23 stazioni missionarie, alcune raggiungibili solo dopo un percorso di tre ore di motocicletta su sentieri sterrati. Ma abbiamo constatato un notevole giovamento per la diocesi: molti leader ecclesiali, preti, religiosi e laici sono nati in quelle stazioni, luoghi di fede e di speranza dove abbiamo registrato anche numerosi battesimi di persone adulte. Sono luoghi, poi, dove il prete vive una vita semplice, caratterizzata da sobrietà ed essenzialità. E, in definitiva, ci sembrano una riposta all’invito del Papa a “uscire” e andare nelle periferie.

Pensa si potrà applicare quest’opera pastorale al territorio urbanizzato di Manila?

Non conosco ancora bene il territorio e la situazione di Manila, dunque sarà tutto da vedere. Ma ho sentito che, in alcune diocesi, si sono create stazioni missionarie anche in realtà urbanizzate, ad esempio in quartieri poveri o nelle baraccopoli. Con i sacerdoti di Manila cercheremo di capire se questo approccio pastorale si può sperimentare e può portare frutto. È un sistema ispirato dal desiderio di prossimità e di condivisione con i reali bisogni della gente. Le famiglie dei fedeli sono chiamate a prendersi cura della realtà pastorale della stazione che, se poi soddisferà i criteri previsti, potrà diventare una parrocchia. È una Chiesa che germoglia e cresce dal basso, grazie al “poco di molti”.

di Paolo Affatato