La riflessione di Byung-Chul Han sui rischi della fobia del dolore

Una società di «non morti»

René Magritte, «La reproduction interdite» (1937, particolare)
06 aprile 2021

Ne La società senza dolore, Perché abbiamo bandito la sofferenza dalle nostre vite (Torino, Einaudi, 2021, pagine 80, euro 13, traduzione di Simone Aglan-Buttazzi) il filosofo sudcoreano Byung-Chul Han, che insegna all’Universität der Künste di Berlino, sostiene che la maggioranza delle persone è affetta oggi dalla «sindrome della principessa sul pisello», una condizione per la quale si soffre sempre di più per cause sempre più piccole.

La teologia ha un nome seicentesco per individuare il problema del male e del dolore, questione centrale in ogni riflessione esistenziale: teodicea, termine con il quale Leibniz ha collegato in modo quasi inscindibile la questione della sofferenza a quella della libertà. La riflessione di Han si fonda su altri presupposti, preferisce partire da più lontano, con una tecnica non sistematica ma di accumulo, mutuando suggestioni diverse sia dalla tradizione orientale che da quella della filosofia tedesca del Novecento. Questo gli consente di proporre affermazioni chiare, dirette, dense e non troppo corpose, nel rispetto dei tempi ristretti nei quali si condensa l’esperienza della lettura per la maggioranza dei nostri contemporanei. Senza per questo rinunciare a passaggi tecnici, dunque spigolosi e complessi, come nel capitolo dedicato all’Ontologia del dolore, dieci pagine scarse nelle quali Martin Heidegger è assoluto protagonista, ruolo svolto altrove soprattutto da Ernst Jünger.

La profondità dell’argomento, le dimensioni molto contenute dello scritto e le origini dell’autore fanno dunque sì che il tono del libro sia spezzettato e incalzante, con frequenti cambi di punto di vista, in un susseguirsi di frasi secche, simili a massime zen, tese a condensare le riflessioni più che a svilupparle. Suggestioni incalzanti invece di dimostrazioni stringenti. Patristica piuttosto che scolastica. Uno sguardo all’indice è sufficiente per apprezzare la vastità degli argomenti affrontati da Han. In dodici capitoli il dolore viene messo a confronto con le grandi tematiche con le quali il pensiero filosofico si cimenta da millenni: senso dell’esistenza, verità, poetica, ontologia, etica.

Le affermazioni efficaci e perentorie sono così tante che non si può evitare di citarne almeno alcune: «Ci si scorda che il dolore purifica, emana un effetto catartico»; i social media e i videogiochi «fungono da anestetici»; la felicità dolorosa «non è un ossimoro. Ogni intensità è dolorosa»; nel nome della sopravvivenza «sacrifichiamo volentieri tutto ciò che rende la vita meritevole di essere vissuta»; «invecchiamo senza diventare anziani», «tutto ciò che è vero è doloroso». Lungo questo percorso Han mantiene lo sguardo centrato sull’oggi, anche se l’incipit alla riflessione è fornito da una frase di Jünger, «Dimmi il tuo rapporto con il dolore e ti dirò chi sei». La risposta del filosofo sudcoreano, riferita tanto all’affermazione delle tecnologie digitali quanto agli effetti della pandemia, è diretta. «Oggi imperversa ovunque una algofobia, una paura generalizzata del dolore». E se, come sostenuto esplicitamente a pagina 65, nel capitolo dedicato agli aspetti ontologici, «il dolore è un dono», un elemento essenziale della dimensione umana, la considerazione iniziale sul rifiuto opposto a ogni forma di sofferenza, financo alle pene d’amore, diventa una condanna per l’atteggiamento esistenziale fondato sul palliativo, sulla difesa dal dolore e in definitiva da ogni altra emozione, fino a sprofondare nella noia, come teme Nietzsche, o a smarrire ogni dimensione umana in un abbandono trans-umanista che mira a una vita senza termine, vuota di emozioni e, in definitiva, semplicemente “non morta”.

La dimensione molto contenuta del testo, e anche una concezione individualista della persona umana, impediscono lo sviluppo di una riflessione approfondita sulle questioni etiche che l’algofobia suscita, in particolare quando si pone di fronte ai temi fondamentali della vita e della morte, nella concretezza con la quale essi vengono posti dalle tecnologie e dal diritto contemporanei. Le domande che si affacciano alla lettura de La società senza dolore e restano senza risposta sono dunque molteplici e di immensa portata. Si tratta di quelle relative al futuro della nostra società, all’“ultimo uomo” di Nietzsche, del quale giustamente tratta Han nel breve epilogo, nel quale giunge a concludere che «la vita priva di dolore e munita di costante felicità non sarà più una vita umana».

Tornano alla mente le riflessioni di Miguel Unamuno, che nel Sentimento tragico della vita si augura di ritrovare nell’aldilà anche il proprio dolore.

di Sergio Valzania