Ufficio oggetti smarriti

La finestra aperta

 La finestra aperta  QUO-077
06 aprile 2021

Le poesie non si spiegano. A maggior ragione se non sembrano poesie, ma racconti brevi, schegge che i poeti (volutamente) infilano nel nostro derma addormentato. La forza di un autore è quella di partire da una storia che è accaduta a tutti individuando, in essa, quella che riguarda solo te. Che parla proprio di te. Una cosa che è successa a tutti è quella di aver provato paura, repulsione quasi, per qualcosa. Nella narrativa o nel cinema, la finestra lasciata aperta è il pertugio del malintenzionato, del ladro, dell’assassino. Da ciò che lasciamo aperto entra il pericolo, basta mettersi d’accordo su cosa sia il pericolo. L’imprevisto. Sembra questo il meccanismo di paura più efficace, l’irruzione dell’imprevisto nelle nostre vite. Ciò che non aspetti supponi venga per ferire. Non è un’idea un po’ stupida? Quanta vita perdiamo per colpa di questa congettura? A sostegno di questo mio dubbio (certo, sono i dubbi che vanno sostenuti, le certezze si godono la salute delle ottusità) condivido fra gli oggetti smarriti, questa piccola (grande) “cosa” di Raffaello Baldini.

Baldini (classe 1925) è nato a Santarcangelo di Romagna ed è stato giornalista certo ma anche uno dei più importanti poeti dialettali italiani. Muore a Milano nel 2005. Scriveva nella lingua della sua terra, il romagnolo, per mere questioni di spazio qua lo leggeremo solo in italiano. La finestra aperta dicevamo, beh in estate, di notte, entrano i pipistrelli… Può capitare .

“I nottal” (i pipistrelli)

Non dovevo tenere aperta la finestra, / adesso mi sono entrati i pipistrelli. / Volano dappertutto, fanno dei sibili, / vengono bassi, mi sfiorano la faccia. / Io sbatto i vetri, ci do con uno straccio, / qualcuno lo prendo, ma ne entrano altri. //

Si fa meglio col lenzuolo, lo attorciglio / come una corda, / lo giro a mulinello sulla testa, / lui si apre e dove prende fa piazza pulita. / Ma ne entrano sempre altri, / pare che ci sia un richiamo, / che cosa sarà? un odore? / è la radio che suona? quelle due pesche / che ho appoggiato sul comò? O che sia io //

Con questo lenzuolo / mi sono rotto le braccia, non ne posso più, / e loro pare che lo sappiano, se mi fermo / mi vengono contro, mi si cacciano nei capelli, / mi s’infilano fra le dita, nelle orecchie. //

Adesso nello sbattere, / per la stanchezza, ho rotto la lampadina, / nel buio è il loro stare, non vanno via più, / tengo le mani sulla testa, mi metto in ginocchio / in un angolo, con la faccia contro il muro, / sto ad aspettare un pezzo, ma non viene nessuno. //

Allora mi butto nel letto, / sotto la coperta, anche con la testa, sepolto, / voglio star buono qui, che si stanchino loro, / che venga giorno, quando sono intontiti, ciechi, / e s’addormentano. Domattina ridiamo. / Ma sono solo le dieci e la notte è lunga / a star fermo, nel buio, / accartocciato quaggiù ai piedi del letto, / zitto, solo, / e loro che volano, che sibilano, che si rincorrono. //

Ma perché poi ho tutta questa paura? / perché sono tanti non finiscono mai, crescono sempre? / sì, va bene, sono uno sterminio, / ma qui dentro, fra i muri, / forse si sentono come intrappolati, / stanno peggio di me, litigano fra di loro. / Però non si danno morsi, non si pizzicano. / E se fosse che sono contenti, che gli piace così, / essere uno stormo, volare, darsi delle spinte, / ma davvero, se avessero solo voglia di ridere, / e mi cercano, e sono rimasti male che mi sono nascosto?/ Io non li ho mai visti da vicino, / non li ho toccati, mi hanno sempre fatto schifo, / ma magari sbaglio io, / a me mi fa senso anche il velluto, e non lo tocco mai. / Sono un po’ neri, poi con quelle ali come un ombrello, / dico sul serio, mi fanno venire la pelle d’oca, / però è colpa loro? / loro volano, non lo fanno apposta, non sono cattivi, / in fondo, sono più matte le farfalle / attorno ai lumi, e poi cosa ti possono fare? / mangiare, mangiano i moscerini, / non hanno gli occhi buoni, niente becco, e nemmeno le unghie, vai a vedere che se ti ci metti con un po’ di pazienza / li puoi addomesticare, li tieni in gabbia. //

Ma per la gabbia c’è tempo, quello che ci vuole adesso / è solo trovare il modo di farsi capire, / di fargli sapere che non gli voglio del male, / che, alla fin fine, se vogliono stare nella camera, / se gli piace il posto, ci stiano quanto vogliono, / Per il dormire si vedrà, / basta mettersi d’accordo, che c’intendiamo, / ma come si fa a fare un discorso se non stanno attenti, / quelli, cento scudi chi li acchiappa, / vanno di qua e di là come ubriachi, / sono solo capaci di fare dei sibili. / Già, ma se fosse il loro modo di parlare, / e non riescono a spiegarsi, / se quando mi si cacciavano nei capelli / mi volevano dire: stai attento parlo con te? / ma stai pure attento, io sento solo dei gran sibili, / non capisco niente, chissà quello che mi raccontano, / senti come urlano. E se gli dessi voce io? / faccio altri sibili, come i loro, degli stridi, ma sottili, / mi metto a parlare come loro. Adesso provo. / Se davvero qualcuno mi rispondesse?

di Cristiano Governa

(tratto da La naiva, Einaudi 1982)