Quattro pagine - Approfondimenti di cultura, società, scienze e arte
Visti da vicino
A colloquio con Natalino Irti

L’ombra sottile del sorriso

Freddy De Waele, «Balance»
06 aprile 2021

Un gentiluomo dal garbo di modi e di cuore, un’espressione seria che si allarga volentieri al sorriso, uno sguardo di intensa, giovane vivacità. Insigne giurista, avvocato di rango, docente di grande valore, Natalino Irti è un uomo di vasta e raffinata cultura, di gentile discrezione e di straordinario, rassicurante equilibrio. Una virtù, quest’ultima, che trova espressione nella scelta di uno stile professionale incline alla mediazione piuttosto che all’intransigente contrapposizione e che poi si estende all’idea di vita associata, sempre al centro della sua riflessione. Una “civil conversazione” la sua, al modo degli antichi umanisti, dove la lucidità dell’analisi, se non permette illusioni, non si lascia irretire da facili disincanti e dove senso di responsabilità, rigore e impegno sono le premesse per indirizzare la vita comune. Un pensiero concertante, nel quale competenze diverse si vanno ad affiancare le une alle altre legando in una preziosa sintesi astrazioni e concretezza. Così avviene nei suoi numerosi libri che non vivono uno sulla memoria dell’altro, come spesso avviene quando il mestiere prevale sulla creatività e sulla seduzione del non ancora tentato, ma che, tenendosi per mano, vanno alla scoperta del nuovo. Una questione di orizzonte che nel caso di Natalino Irti è vastissimo, pur nel rispetto di una assoluta coerenza. Scrittura come esercizio di libertà intellettuale dove la densità di pensiero si accompagna al nitore dello stile e dove il diritto convive con la scienza politica, la filosofia, la storia, la letteratura in una visione del mondo che, richiamandosi alla grande tradizione del liberalismo europeo, progetta un’Italia civile insieme figlia e madre della ragione.

Il primo ricordo della tua vita?

Ho qualche vaga memoria domestica dei miei primissimi anni, ma i più incisivi ricordi sono legati alla guerra o meglio a quell’anno tra luglio 1943 e giugno 1944 quando, lasciata la nostra casa di Avezzano, eravamo sfollati in un paese d’Abruzzo. Ricordo i bagliori di guerra che si scorgevano da dietro le montagne e poi il passaggio dei soldati tedeschi in ritirata dopo la battaglia di Cassino che si trascinavano stanchi e con le divise lacere. Il mio ricordo di guerra non è la terribilità di un esercito invasore, ma un esercito sconfitto costretto a ritirarsi. Quel tempo è legato anche al maestro da cui andavo a lezione. Un’umile casa del paese fatta di una sola stanza con una cucina economica, un lavello e un tavolo al centro e dove un paravento con una coperta stesa divideva lo spazio della camera da letto. In mezzo a questa stremata povertà, un maestro bravissimo.

E della scuola che ricordo hai?

Di devozione e gratitudine per gli insegnanti che ho avuto. Esigenti, severi ma quasi tutti presenze importanti nella mia vita. Ricordo l’esercizio di mandare a memoria centinaia di versi, l’impegno costante nello studio, la trepidazione davanti ai quadri esposti nell’atrio del ginnasio-liceo Torlonia di Avezzano. Ricordo anche l’affettuosa competizione tra noi, in particolare con un compagno di classe per fortuna in ambiti diversi: Giorgio Letta, che sarebbe diventato un illustre matematico, eccelleva nelle materie scientifiche, io amavo le discipline umanistiche. Eppure eravamo amici di studio e di rari svaghi. Voglio anche aggiungere che la nostra era la scuola della borghesia cittadina. Eroici, li ricordo così, quei compagni che venivano dai paesi della Marsica e che per studiare affrontavano viaggi faticosi e lunghe soste nella sala d’attesa della stazione.

Chi ha contato di più nella tua formazione?

A mia madre mi legava una dolce, profonda affinità, verso mio padre, eccellente avvocato penalista, di gusto dannunziano e fede fascista, avevo un affetto rispettoso, una grande stima soffusa di distanza. Nell’ambito familiare certamente la figura che ha contato di più fu mio zio Nicola, il fratello di mio padre, di cultura liberale e letteraria. E poi i miei insegnanti, dalle elementari fino agli anni dell’università. Nel bilancio del debito al primo posto metterei Emilio Betti, di cui sono stato allievo, uno tra i più grandi giuristi del Novecento, altissimo studioso di diritto con forte vocazione filosofica, a cui devo il metodo di analisi e di argomentazione e anche alcune caratteristiche di stile e di cura letteraria della pagina scritta. E poi ricorderei filosofi di cui frequentai i corsi mentre studiavo giurisprudenza, Guido Calogero e Ugo Spirito alle cui lezioni ho affinato l’arte di offrire diritto di cittadinanza a prospettive e linguaggi diversi. E naturalmente hanno contato i libri. Leopardi è stato la grande passione della mia giovinezza.

Accanto alla tua attività professionale, con il patrocinio di rilevanti controversie economiche e con gli arbitrati, c’è stata la tua attività di docente e la tua posizione di accademico dei Lincei.

Mi piace distinguere tra diverse categorie di docenti: il professore-fortuito, che avrebbe potuto fare qualsiasi altro mestiere; il professore-collega, superbo della sua condizione, che non si cura di chi deve imparare ma solo di chi insegna come lui; il professore-insegnante che con una certa arditezza etimologica definirei colui che reca il segno del proprio maestro e lascia il segno come maestro. Senza risparmio di impegno e passione, ho sempre cercato di essere un insegnante. Ogni città della mia vita accademica ha lasciato in me una traccia. Dall’ateneo di Sassari, dove giunsi poco più che trentenne nel pieno della freschezza giovanile, fino alla Sapienza di Roma, dove avevo studiato e che per me fu un ritorno alla casa madre, questo itinerario dalla piccola alla media alla grande università fu non solo arricchente ma educativo. Nei lunghi anni del mio insegnamento ho avuto innumerevoli scolari e molti allievi, cioè scolari che proseguendo negli studi scientifici sono diventati a loro volta maestri. Oggi vedo come un risultato raggiunto e con taciuto orgoglio una scuola che, tra allievi e allievi degli allievi conta circa cinquanta persone. In tutti, pur tra diversità di attitudini e di intensità, mi pare di cogliere — o m’illudo di sorprendere — quella “passione per la cosa”’, che è il principio di ogni indagine scientifica. L’Accademia dei Lincei è un’isola, e, come tutte le isole, può essere una terra o di emigranti o di uomini in attesa, che custodiscono il passato e guardano al futuro.

Per molti le età della vita sono qualcosa di inavvertito, per altri coincidono con un evento, un incontro, un nuovo modo di pensare. Quando è cominciata per te l’età adulta?

Quando, dopo aver visto per molti anni la vita attraverso i libri, ho cominciato a vedere i libri attraverso la vita, chiamandoli soltanto come attendibili testimoni o fedeli consiglieri.

Che rapporto hai con i ricordi?

Direi di cautela. Ho timore dell’assedio dei ricordi come se potessero ridurre l’energia del vivere e la prospettiva del domani. Ho bisogno per progettare il futuro di capire l’oggi e se possibile di scorgervi una razionalità. Spesso è un tentativo che fallisce ma per me è un’esigenza irrinunciabile. Altra cosa è la memoria, la memoria che fa tutt’uno con la tua identità di uomo. Molti anni fa su una lapide di un viaggiatore inglese sepolto nel cimitero di Capri lessi queste parole: «Non è terribile la morte, è terribile l’oblio».

Alla memoria di tuo figlio hai istituito una Fondazione.

La Fondazione Nicola Irti per le opere di carità e cultura, istituita da me e da mia moglie Elena alla memoria di nostro figlio Nicola, ha già svolto iniziative di grande rilievo: dal restauro del prezioso organo nella chiesa romana di Santa Maria in Portico in Campitelli all’erogazione di liberalità per strutture sanitarie o per sostegno culturale ai detenuti negli istituti penitenziari. E altre di carattere medico e scientifico sono in programma. Nel consiglio di amministrazione siedono, accanto ad amici di provato affetto, il presidente dell’Accademia dei Lincei, il fisico Giorgio Parisi, e il rettore della Pontificia Università Gregoriana, il gesuita Nuno da Silva Gonçalves, che ha delegato un confratello di profondo sentire come il padre Sandro Barlone.

Un tratto essenziale del tuo carattere?

L’ironia. Non l’umorismo dissacrante o il sarcasmo malvagio, ma l’ombra sottile del sorriso che ci dà la misura dei problemi, ascolta e pesa le ragioni altrui, ama il dubbio, stempera inutili e feroci passioni. L’ironia non nasconde la serietà della vita, anzi la esalta nella sua autentica e francescana essenzialità. Questo è forse il fondo del mio carattere.

Quanto è importante l’amicizia nella tua vita?

Molto. Le amicizie nate sui banchi di scuola vivono di consuetudine e di confidenza, i legami che si stabiliscono nel meriggio e nel tramonto esprimono una pura consonanza di animo e di pensiero e spesso crescono nella discrezione. Nell’insieme immagino la vita come una trama di incontri. L’esempio più recente è il nostro. Leggendo Il verso giusto, un’antologia della poesia italiana dalle origini ai giorni nostri di quel grande studioso e amico che è Luca Serianni, una poesia, Terza Liceo, mi toccò il cuore. Ricordo che mi affrettai a inviare il testo a mia sorella e mio fratello, e ai miei antichi compagni di scuola e il commento più bello venne da Giampiero Nicoli, il più sognante e poetico del gruppo. «Tenerezza struggente» mi scrisse, perché tutti abbiamo dentro una terza liceo. Subito dopo volli conoscerti, perché eri tu che avevi scritto quei versi.

Ti ringrazio di queste belle parole. Vogliamo parlare dei tuoi libri?

In un primo periodo e fino agli anni Novanta ho scritto libri di carattere tecnico-giuridico in linea con la mia formazione e con la vita universitaria. Successivamente inizia una fase nuova, con una riflessione dove si attenua il profilo esegetico del diritto e si dischiudono gli interrogativi di fondo. Una riflessione che si è arricchita di un dialogo personale con filosofi di alto rango come Tullio Gregory, Emanuele Severino, Massimo Cacciari. Con gli ultimi due ho scritto libri in quella concordia discors che è misura di onesto pensiero. Poi ci sono libri che definisco “laterali”, perché li sento alla periferia della mia riflessione e della mia vita.

In una grande costellazione, come quella disegnata dai tuoi libri, al centro resta sempre il diritto. Ti sei definito un «giurista il quale non può uscire… dal suo esser giurista».

Mi riconosco pienamente in queste parole. Aggiungo che più si studia il diritto più se ne scopre la grandezza e la miseria. Non c’è convivenza senza un ordine e non c’è ordine senza legge. Nello stesso tempo la legge sa di essere imperfetta e insufficiente rispetto a esigenze e bisogni che via via si manifestano nella storia dell’uomo. Il diritto è necessario, indispensabile ma ha in sé un’ansia da imperfezione, una dolorosa tensione a farsi diverso.

E veniamo al tuo libro più recente «Viaggio tra gli obbedienti» da poco giunto in libreria. Un libro bellissimo dove ti muovi, come in un viaggio, tra intuizioni, testimonianze e riflessioni, con una scrittura che ha il rigore del saggio ma il passo avvincente di un racconto, e dove rivoluzioni il concetto tradizionale di obbedienza che diventa, nelle tue convincenti pagine, il più radicale atto di libertà.

Non è un trattato organico sull’obbedienza, ma un libro arioso, “stravagante” non nel senso di bizzarro o eccentrico quanto di diario culturale. Un libro che esplora, in tempi e luoghi diversi, le forme dell’obbedienza, dai voti monastici ai doveri militari, dalle prescrizioni mediche alle lealtà costituzionali. Tema conduttore è l’atto di obbedienza che nasce sempre dalla coscienza dell’individuo che ascolta, si interroga e, superati dubbi e tormenti, sceglie per il sì o per il no.

In questo libro ci sono pagine di straordinaria intensità. Penso tra le tante a quelle dove la scelta, negli orrori del nazifascismo trionfante, fu tra restare e andare in esilio e ancora là dove parli del sentimento d’amore che, nell’intimità di una vita a due, talvolta suggerisce «dei sì che stanno sulle labbra ma non nei cuori». E poi togli polvere a virtù antiche, che spesso non sono più considerate neanche virtù, come la coerenza.

La coerenza non è una consuetudine a cui per stile di vita o pigrizia di volontà si resta legati, ma rispetto di se stessi, senso di responsabilità verso le scelte già compiute. Questo se si intende la vita, intellettuale, morale, politica, sociale, non nella frammentazione di stagioni che si avvicendano, ma in una continuità dove il passato si lega al presente e al futuro. Coerenza è obbedienza alla propria legge individuale, ai principi scelti per regola della nostra vita.

I libri di solito sono idee che a poco a poco prendono forma e si fanno scrittura, per questo è difficile ricostruirne gli inizi. Per «Viaggio tra gli obbedienti» tu evochi, nella bella introduzione, un luogo, un casale in terra d’Abruzzo, un mezzo, una vecchia e fedele penna Waterman e una data di nascita, la sera di lunedì 9 marzo 2020, che coincide con la prima clausura. Questo libro è anche una toccante riflessione sui tempi difficili che la pandemia ci costringe a vivere.

Se proviamo a immaginare che domani, sotto un cielo limpido e luminoso, il covid, ormai stanco e sazio, lasci il nostro pianeta, un domani che è nella nostra ansiosa speranza, allora poco o nulla, credo, sarà come prima. Saranno da curare le ferite dell’animo, i dolori delle scomparse, le vecchie e le nuove povertà. La morte dei nonni non è colmabile e determina una perdita di memoria familiare e collettiva. Forse generazioni di giovani si sentiranno privi di passato e vivranno — a usare il titolo di un amaro saggio di Adriano Prosperi — in un «tempo senza storia». E saranno, giovani e meno giovani, ormai formati con gli strumenti della comunicazione elettronica, presi nella spirale dispotica della tecnologia: lavoro da remoto, didattica a distanza, assenza di rapporti personali e di quel leggersi negli occhi che costituisce, o costituiva, il metodo della vera umanità. E come si tornerà, se tornare si vorrà, al lavoro tra uomini e alla “scuola dell’uomo”? Forse non siamo ancora in grado di valutare l’incidenza del coronavirus nella esistenza individuale e collettiva. Ma certo se ne scorgono alcune linee discordi: l’appello alla reciprocità sociale, poiché, difendendo la nostra vita, insieme difendiamo la vita degli altri; spesso il ripiegarsi della coscienza nella più profonda intimità; il bisogno di ridestare vecchi rapporti di amicizia o di colleganza; la mobilitazione delle energie, che direi originarie e creative. E poi, o meglio per prima, la durezza delle inuguaglianze sociali e lo spettro della nuda povertà. Sopra tutte le immagini, che pure si affollano nell’animo, si staglia, quasi simbolo del nostro stesso essere, la bianca e solitaria figura di Papa Francesco dinanzi alle deserte colonne del Bernini dilavate dalla pioggia.

«Viaggio tra gli obbedienti» è l’ultimo nato, c’è un libro che ami di più tra i tanti che hai scritto?

Quello che ancora devo scrivere. Forse.

di Francesca Romana de’Angelis


Natalino Irti ha insegnato 
nelle università di Sassari, Parma, Torino e dal 1975 a La Sapienza di Roma. È socio nazionale dell’Accademia dei Lincei e presidente dell’Istituto italiano per gli studi storici fondato da Benedetto Croce. Ha ricoperto numerosi incarichi nel sistema finanziario e ha tenuto per sette anni la presidenza del Credito Italiano. Svolge la professione forense specialmente dinanzi alla Corte di Cassazione ed è tra gli arbitri italiani più richiesti. Collabora al «Corriere della Sera» e al «Sole 24 Ore». Tra i suoi tantissimi libri, ricordiamo L’uso giuridico della natura (2013), Un diritto incalcolabile (2016). Con Severino ha scritto il Dialogo su diritto e tecnica (2001), con Cacciari Elogio del diritto (2019). Viaggio tra gli obbedienti (Milano, La nave di Teseo, 2021, pagine 208, euro 19) è il suo libro più recente.