Per la giornata mondiale in onore delle vittime del genocidio in Rwanda

Il dovere della memoria

Pannelli che riportano i nomi delle vittime del massacro di Bisesero, uno degli episodi più atroci del genocidio in Rwanda. Si trovano presso il Bisesero Genocide Memorial, nell’ovest del Paese (Afp)
06 aprile 2021

Fare memoria del genocidio che insanguinò tra l’aprile e il luglio del 1994 il Rwanda, lo straordinario Paese delle Mille Colline incastonato nel cuore della Regione dei Grandi Laghi, è certamente un dovere per credenti e non credenti. Non si tratta semplicemente di tornare indietro con la moviola della Storia per recuperare dei pallidi fotogrammi che sbiadiscono col passare del tempo. Siamo piuttosto di fronte ad una realtà invereconda, luttuosa e violenta che non solo il popolo ruandese, ma l’intero consesso delle nazioni ha il sacrosanto dovere di non dimenticare.

La brutalità delle uccisioni perpetrate in quei mesi furono la palese manifestazione di ciò che di più diabolico e perverso l’animo umano può concepire nella sua depravazione. Ecco allora perché è importante affermare, col cuore e con la mente, la ferma condanna di ciò che allora avvenne, esprimendo un sentimento civile, energico e vigilante, una passione autentica per tutto quello che concerne il diritto alla vita, la nonviolenza, la pace, la fratellanza, l’eguaglianza, la libertà e la democrazia. In quel tragico frangente, è bene rammentarlo, persero la vita almeno 800mila persone, molte delle quali tutsi, ma anche hutu, immolate come vittime sacrificali di una violenza sfrenata all’insegna della follia.

Sebbene l’anno prima di quella orribile mattanza, nell’ottobre 1993, fosse stata dispiegata nel Paese una forza di pace multinazionale, la Missione delle Nazioni Unite di assistenza al Rwanda (Minuar), con un mandato limitato ad un appoggio alle parti per l’applicazione dell’accordo di Arusha (Tanzania) al fine di sostenere una pacifica spartizione del potere (accordo che peraltro non venne mai effettivamente applicato), il grosso della Minuar si ritirò subito dopo l’esplosione della violenza a Kigali e dintorni. Il fatto che l’Onu non abbia garantito la protezione della popolazione civile dal genocidio è stato esaminato e riconosciuto in un rapporto delle Nazioni Unite, pubblicato nel dicembre 1999.

Inoltre, il genocidio ruandese rappresentò l’implosione di una diplomazia che non fu in grado di prevenire gli ignobili massacri dei civili e poi arginare gli effetti di una pesante concatenazione di eventi a livello regionale tuttora in fase di svolgimento. Fra di essi, l’esodo dal paese degli hutu ruandesi: a fine agosto 1994, l’Alto Commissariato per i Rifugiati delle Nazioni Unite (Unhcr) aveva stimato in oltre due milioni il numero dei rifugiati nei paesi limitrofi, di cui 1,2 milioni nello Zaire, 580mila in Tanzania, 270mila in Burundi e 10mila in Uganda. Su una popolazione di sette milioni di abitanti, la quasi totalità aveva subito le conseguenze del conflitto.

Rimane il fatto che se ancora oggi il settore orientale della Repubblica Democratica del Congo è incandescente è perché la crisi ruandese per induzione contaminò sin d’allora i vicini di casa. D’altronde, i cosiddetti génocidaires ruandesi contavano, già alla fine del 1994 alleati nell’amministrazione locale delle due province congolesi del Kivu, e alcuni ufficiali delle ex Far (Forze armate ruandesi) acquisirono, di fatto, il controllo dei campi profughi. Gli operatori umanitari non erano assolutamente in grado di tener loro testa. Basta pensare che a Goma, nel Nord Kivu, le tende erano raggruppate per settore, comune, sottoprefettura e prefettura, come in un’immagine speculare dell’organizzazione amministrativa del Paese che i rifugiati avevano da poco lasciato. La presenza nei campi degli ex dirigenti del Rwanda equivaleva, in realtà, ad una sorta di governo in esilio. Gli ufficiali di alto grado delle ex Far finirono con l’essere trasferiti in un campo a parte, e i loro subordinati furono persuasi a disfarsi delle uniformi; la popolazione, però, era chiaramente ancora sotto il loro controllo, e sotto quello dei miliziani hutu interahamwe.

Successivamente, gli effetti della prima e seconda guerra congolese hanno fatto sì che, oltre a causare la morte di molti profughi ruandesi nelle contrade interne di Shabunda, Walikale e Tingi-Tingi, si generasse una galassia formazioni armate, soprattutto nel Nord e Sud Kivu, che tuttora seminano morte e distruzione.

Nel frattempo il Rwanda si è risollevato e le nuove generazioni, guardando al futuro, stanno dando un grande impulso, non solo al progresso economico, ma soprattutto alla ricomposizione di quelle divisioni, su base etnica, che tanto hanno nuociuto nel passato al tessuto sociale. A questo proposito, il ruolo delle agenzie educative nell’ambito della società civile e in particolare quello delle chiese cristiane è fondamentale per costruire un futuro all’insegna della pacifica convivenza e del benessere condiviso.

di Giulio Albanese