Hic sunt leones
Una questione da non sottovalutare

Radicalizzazione
del jihadismo
nell’Africa Sub Sahariana

 Radicalizzazione del jihadismo nell’Africa Sub Sahariana  QUO-076
03 aprile 2021

Se fino ad alcuni anni fa la linea di faglia tra Oriente e Occidente attraversava i Paesi mediorientali, oggi assistiamo ad un significativo slittamento dell’asse sul continente africano. A parte il versante settentrionale che si affaccia sul Mediterraneo, e che vede in particolare la Libia come epicentro di numerose formazioni di matrice jihadista, è ormai evidente che le turbolenze islamiste si stanno radicando molto più a meridione, in vasti settori dell’Africa Sub Sahariana. In particolare vi è grande preoccupazione nei circoli della diplomazia internazionale riguardo al possibile tentativo di creare in questa macroregione il tristemente noto Califfato, che i fautori dell’Al dawla al islamiya fi al Iraq wal Sham (“Stato islamico dell’Iraq e del Levante”), meglio noto con l’acronimo Is (Islamic State), non sono riusciti a realizzare in Medio Oriente.

Lo scenario di cui stiamo parlando è caratterizzato da numerose aree segnate da una crescente radicalizzazione del jihadismo che meritano una scrupolosa disamina: dalla fascia saheliana, a quella dell’Africa occidentale, dall’Africa centrale a quella orientale, per non parlare della più recente spinta nella zona sud-orientale del continente. Ma andiamo per ordine.

La prima è localizzata in vasti settori della regione saheliana, ma soprattutto in corrispondenza dell’ansa del fiume Niger, tra il Mali centro-orientale, il Burkina Faso settentrionale, la regione sud-occidentale del Niger; ma interessa anche la Nigeria settentrionale fino al lago Ciad e il Camerun settentrionale. Proprio in quest’ampio quadrilatero sono attive numerose organizzazioni islamiste, molte delle quali su base etnica fortemente indipendenti tra loro; altre ancora sono confluite in organizzazioni tentacolari come il Groupe de soutien à l’islam et aux musulmans (Gsim). Proprio in questo stesso perimetro sono al contempo venute allo scoperto due componenti dello Stato islamico: quella dello Islamic State in the Greater Sahara (Isgs) e dell’Islamic State West African Province (Iswap). La prima è nata a seguito di una scissione interna al Mouvement pour l’unicité et le jihad en Afrique de l’Ouest (Mujao) nel maggio del 2015. L’Isgs ha compiuto in questi ultimi anni dozzine di attacchi contro le truppe nigerine, maliane e burkinabé, milizie come il Mouvement pour le Salut de l’Azawad (Msa) e Groupe d'Autodéfense Tuareg Imghad et Alliés (Gatia).

L’Iswap, invece, è nata da una costola dei famigerati terroristi nigeriani Boko Haram, il cui nome ufficiale è Jamà atu Ahlis Sunna Lidda’ awati wal-Jihad, che in lingua araba vuol dire “Gente dedita alla diffusione degli insegnamenti del Profeta e al Jihad”. Attualmente, il termine Boko Haram ha un significato estensivo riferendosi a due distinte organizzazioni: l’Islamic State West Africa Province (Iswap) e la Jama’at Ahl al-Sunnah li-l-Dawah wa-l-Jihad (Jas). La prima ha adottato la sigla Iswap per sottolineare la propria affiliazione all’Is cercando così di attrarre più proseliti e finanziatori. L’Iswap — i cui obiettivi sono di respiro internazionale — inserisce la ribellione Boko Haram all’interno del fronte globale del jihad e mira a destabilizzare anche l’Africa occidentale. Il Jas ha invece un’agenda più regionale, essendo rivolta quasi esclusivamente contro il governo nigeriano.

Nel settore centrale del continente è invece attivo Madina at Tauheed Wau Mujahedeen (Mtn), che si traduce “la città del monoteismo e dei guerrieri santi”, noto anche con l’acronimo Iscap (Islamic State Central Africa Province). Si tratta di una versione riveduta e corretta dell’Adf (Allied Democratic Forces) ben radicata nel settore orientale della Repubblica Democratica del Congo. Sheikh Musa Baluku, capo del gruppo eversivo dal 2015, utilizza i media tradizionali e social (particolarmente Telegram) per divulgare l’ideologia jihadista, dichiarandosi in piena sintonia con la dottrina dello stato islamico. Questi ribelli sfruttano la catena montuosa del Ruwenzori come base per compiere incursioni nelle regioni congolesi dell’Ituri e del Nord Kivu. Sul versante orientale dell’Africa, in Somalia il cosiddetto Stato islamico ha invece origine da una frangia dissidente di Al Shabaab, guidata dall’ideologo Abdulqadir Mumin. La forza combattente è composta di circa 200 effettivi ed è formata da jihadisti somali, ugandesi, keniani e tanzaniani, che costituivano il bacino dei foreign fighters di Al Shabaab.

Il dato sicuramente preoccupante è che queste formazioni armate sotto l’egida dello Stato islamico hanno già profondi legami tra loro e il loro obiettivo comune è la creazione di un’unica provincia islamista (Wilayat).

Questa fenomenologia è comunque riscontrabile anche più a meridione: da Cabo Delgado (Mozambico) fino alla Tanzania. In questo settore imperversano i jihadisti di Ahlu al-Sunna Wal Jamaa (Al Shabaab), affiliati all’Iscap, comparsi sulla scena nel 2015 e che da diversi mesi hanno lanciato una campagna militare che sta causando morte e distruzione. Attualmente, i miliziani sarebbero meno di un migliaio, ma ben equipaggiati. Basti pensare che, ai primi di agosto dello scorso anno, sono riusciti ad impadronirsi della città portuale di Mocimboa da Praia e poi hanno esteso le loro attività più a nord, sconfinando nella vicina Tanzania. Sono di questi giorni le notizie di violenti attacchi lla città di Palma. Una crisi armata che ha generato l’esodo della popolazione locale dalle zone dei combattimenti e che l’esercito regolare mozambicano (Fadm) non è riuscito a contenere, nonostante il governo centrale di Maputo abbia assunto due società di contractor. Stando a fonti della società civile, questi jihadisti possono contare su una rete logistica e di supporto con altri Paesi grazie anche al fatto che controllano lo scalo portuale di Mocimboa da Praia. Inoltre, sono state raccolte testimonianze di decapitazioni e altre atrocità: addirittura minori decapitati dai miliziani islamisti, come denunciato da Save the Children nel suo ultimo rapporto che ha raccolto le testimonianze strazianti delle madri delle vittime brutalmente trucidate. Dall’inizio delle ostilità hanno perso la vita 2.500 persone e 700 mila sono dovute fuggire dai loro villaggi. Occorre comunque rilevare che questi jihadisti, stando sempre a fonti locali, hanno manifestato simpatie nei confronti di alcuni segmenti della popolazione — prevalentemente di fede islamica a Cabo Delgado — in una zona propizia a traffici d’ogni sorta. Per accattivarsi le simpatie della gente di Mocimboa, i miliziani hanno distribuito agli abitanti parte del bottino dell’attacco, soprattutto denaro e viveri. Lo scenario bellico profilatosi è tale per cui, recentemente, gli Stati Uniti hanno ritenuto opportuno intervenire, d’intesa con le autorità governative locali, inserendo il gruppo islamista nella lista delle organizzazioni terroristiche. L’impegno di Washington da una parte è incentrato sulla formazione delle forze di contrasto locali, fornendo loro supporto in tutte le fasi delle operazioni che verranno concordate contro i jihadisti. Dall’altra, come peraltro già avvenuto in Somalia, utilizzeranno la formula dei cosiddetti «raid in autonomia», grazie alla legge anti-terrorismo post 11 settembre. Da rilevare che molto più a nord, su iniziativa della Francia, è operativa la task force Takuba in una logica di cooperazione securitaria internazionale nella fascia saheliana.

Una cosa è certa: il jihadismo che infesta l’Africa Sub Sahariana, legato al paradigma dello Stato islamico, è l’ennesima variabile che si inserisce nello scacchiere geopolitico del continente.

E se da una parte è vero che questo estremismo è, alla prova dei fatti, una palese strumentalizzazione ideologica della religione musulmana per fini eversivi, dall’altra è fondamentale garantire l’incolumità delle popolazioni autoctone. È evidente d’altronde che l’intera macro regione africana, ricca di commodity d’ogni genere, necessiti di una perentoria e incisiva azione solidale da parte della comunità internazionale finalizzata alla sicurezza, alla lotta contro l’iniquo sfruttamento delle risorse e alla povertà che affligge milioni di innocenti. Non è un caso, ad esempio, che nelle acque dell’Oceano Indiano, antistanti il Mozambico settentrionale siano in corso attività estrattive da parte di multinazionali petrolifere. Per non parlare dei giacimenti nigerini di uranio. S’impone pertanto una radicale riforma della governance delle risorse — energetiche in primis — in senso più equo ed inclusivo. È indubbio che la violenza jihadista sia devastante e finalizzata ad accrescere e minare la stabilità dell’Africa. Occorre pertanto scongiurare che vi siano pretesti che possano consentire ai fautori di questa ideologia del terrore di infliggere assurde e inammissibili sofferenze alle già stremate popolazioni civili.

di Giulio Albanese