I 70 anni di Francesco De Gregori

Compagno di viaggio

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03 aprile 2021

«In realtà, se ripenso a quella canzone, La ragazza e la miniera, io non lo so se veramente la tristezza possa passare grazie a uno che canta. Forse no, forse non sempre, forse dipende da qual è la canzone.». Così Francesco De Gregori, in una intervista su «L’Osservatore Romano» del 5 marzo 2020, commentava alcuni versi del brano citato (contenuto nell’album del 1983 La donna cannone) che dicono: «E meno male che c’è sempre qualcuno che canta / E la tristezza ce la fa passare / Sennò la nostra vita sarebbe una barchetta in mezzo al mare».

Il musicista romano, che il 4 aprile compie 70 anni, di canzoni ne ha scritte circa duecento, e chissà quante di esse sono riuscite, magari anche solo per qualche istante, ad alleggerire l’anima affaticata di chi le ha sentite e viste passare, come in un certo senso capita a Dante nel Purgatorio quando ritrova il suo grande amico Casella, «buono cantore e intonatore di canti fiorentino», cui si rivolge dicendogli: «Se nuova legge non ti toglie / memoria o uso all’amoroso canto / che mi solea quetar tutte mie voglie, / di ciò ti piaccia consolare alquanto / l’anima mia, che, con la mia persona / venendo qui è affannata tanto»; e dopo averne ascoltato la musicale «dolcezza che ancor dentro mi sona», spiega che tutti i presenti «parevan così contenti, / come a nessun toccasse altro la mente».

Sì, forse «dipende da qual è la canzone» e dal misterioso meccanismo che si attiva nell’incontro fra musica, parole e cuore. Un meccanismo che desta stupore e che resta ultimamente misterioso anche per chi, come De Gregori, ci lavora assiduamente attorno da cinquant’anni. Mezzo secolo di versi cantati e suonati in giro per l’Italia, a partire dalle aurorali esibizioni nel Folk-studio, il locale capitolino in cui alla fine degli anni Sessanta cominciò a esibirsi, per gioco, in compagnia di vari amici (Venditti, Lo Cascio, Bassignano, Locasciulli, De Angelis, Zenobi, tra gli altri), fino alla presa di coscienza che quel gioco stava diventando un po’ alla volta un vero e proprio lavoro (per fortuna coincidente con la sua vocazione, perché quando «la gente lo sa che sai suonare, / suonare ti tocca per tutta la vita / e ti piace lasciarti ascoltare», per dirla col deandreiano Suonatore Jones).

Nel suo viaggio artistico, De Gregori ha incrociato, e incrocia, la vita di un sacco di gente di varie generazioni, offrendogli le proprie canzoni, vecchie o nuove, incise su vinile o fluidificate in file audio, nelle quali ha interpretato, e interpreta, momenti della storia italiana, con l’accompagnamento “popolare” di fisarmoniche e zampogne e con quello “americano” di chitarre acustiche ed elettriche. Ha scritto, e scrive, rime chiare e scure, mischiando linguisticamente e retoricamente complessità e immediatezza, dialogando sia con le composizioni del Premio Nobel Dylan sia con quelle di antichi e semisconosciuti cantastorie dialettali, e narrando vicende di uomini e donne, veri o immaginari, i loro dolori, le loro speranze (e la parola speranza, insieme a preghiera, torna spesso nelle spiegazioni da lui fornite di certi suoi pezzi). Nei suoi brani ha anche raccontato, e continua a farlo, di sé e della propria vita, arrivando a confrontarsi con l’inevitabile confusione d’identità fra persona e personaggio di cui è oggetto, come ogni artista di fama, nella percezione dei fan. Una fama comunque vagliata al fuoco dell’autoironia e della leggerezza, sempre più intense ed evidenti con il passare del tempo.

Nessuna aura, insomma (e qualcuno ricorda che qualche anno fa, in un incontro in un liceo romano, esordì presentandosi agli studenti come un semplice “piccolo borghese” e facendo loro presente come non vi sia affatto una relazione obbligatoria fra arte e maledettismo). Insomma: settant’anni percorsi “a passo d’uomo”, per chiudere con il titolo di una delle sue tante e bellissime canzoni. L’augurio è che conservi sempre lo stupore davanti a quel meccanismo misterioso che tutti — artisti e pubblico — ci supera continuamente durante il viaggio, e che, appunto, ci fa uomini.

di Paolo Mattei