Riedito il «Sabato della storia» di Joseph Ratzinger e William Congdon

Come il nero
in un quadro

William Congdon, «Sepolcro»
03 aprile 2021

Si può cogliere la croce come spazio di immobilità, in attesa della morte, o come luogo di azione di un dramma. E persino il vuoto del sabato come silenziosa presenza. Il buio più nero può ospitare altro. Joseph Ratzinger e William Congdon penetrano ciò che noi rifuggiamo: c’è un bisogno di vita che istintivamente fa volgere altrove lo sguardo, ma qualcosa di diverso distingue l’umano, così che la stessa morte possa esser guardata negli occhi.

Il Signore della passione ha catturato l’attenzione e forse anche l’inquietudine di due giganti del Novecento. La loro capacità di non arretrare di fronte al baratro è ora nuovamente raccolta in un piccolo libro, la cui riedizione può accompagnare la meditazione nei giorni pasquali. Fin dal titolo — Il sabato della storia (Milano, Jaca Book 1998/2021) — esso lascia intravvedere come gli ultimi giorni di Cristo siano ritrovati nel drammatico presente affrontato dagli autori. Il loro dialogo avviene a posteriori: è frutto di un accostamento voluto dai curatori, i quali ripetutamente sottolineano sia l’originaria indipendenza, sia la profonda consonanza delle due voci. La voce di un artista capace di grandi svolte: «L’incontro con Cristo, dopo il 1959, mi fa scoprire che il suo dramma di croce è pure mio. E questo mi porta al Crocifisso tramite un ritorno alla figura, figura mai più da vedere o da dipingere disgiunta dalla croce». E quella di un teologo nato e battezzato il sabato santo: «Il messaggio del giorno in cui venni al mondo aveva pertanto un legame particolare con la liturgia della Chiesa e la mia vita era fin dall’inizio orientata a questo singolare intreccio di oscurità e di luce, di dolore e di speranza, di nascondimento e di presenza di Dio».

È bene distinguere i due discorsi, entrambi intreccio fitto di immagini e parole. Riconoscere le consonanze, senza smarrirne l’originalità. Solo così il libro può fare il giusto spazio a ulteriori discorsi, che egualmente nascano dal silenzio di una parola sospesa. Ogni lettore, infatti, è a sua volta esposto alla tenebra che azzera i copioni già scritti e può resistere, o persino rinascere, solo lasciandosi educare al nuovo. Che è sconcertante: Ratzinger e Congdon testimoniano l’impatto con una realtà in cui morire viene prima di risorgere. Più di altri, infatti, del proprio secolo hanno avvertito il carattere tragico, lasciando che una grazia silenziosa li raggiungesse persino dal di sotto, dall’interno degli inferi: «Ma là dove Egli giunge, l’Inferno cessa di essere Inferno, poiché Egli stesso è la vita e l’amore, poiché Egli è il ponte che unisce uomo e Dio e perciò anche gli uomini tra di loro. Perciò la discesa è allo stesso tempo anche trasformazione: l’ultima solitudine non esiste più — o tutt’al più può esistere per colui che la vuole espressamente, che fin dal suo intimo e in ciò che lo fonda rifiuta l’amore, perché vuole essere solamente se stesso, da se stesso e per se stesso».

Da questo squarcio, attraverso il quale il futuro Benedetto xvi coglie la luce nel regno delle tenebre, Congdon vede la bellezza apparire in una realtà nera: «Dipingo su nero, perché il dipingere non è rappresentare una luce che c’è e basta, ma piuttosto partecipare della luce che sta divenendo dal buio — e tu la segui, dal nero, fino al punto o qualità di luce che è quella che ti ha afferrato, perché quella luce nata è miracolo davanti al suo punto di partenza che è il senza luce del nero».

Il volume alterna pagine dirompenti a immagini che andrebbero definite icone: la matericità e i paradossi, in effetti, fanno delle opere di Congdon un quasi-sacramento di quanto lo ha rigenerato. «Perché io non mi sono suicidato? Un amico recentemente mi ha detto: “Tu non ti butteresti mai dal balcone perché è già accaduto” — ecco, questa è la parola per un candidato al suicidio: “Sei già stato offerto”».

Un’arte, quindi, da dopo la morte: se «dilaga nel campo, inonda il paesaggio; ormai tutto è strada, o meglio: la strada non c’è più, tutto è diventato corpo morente di Cristo», l’artista, già morto, opera da risorto. Lentamente, infatti, una nuova coscienza in lui affiora. In un esercizio fisico talvolta concitato, tipico dell’action painting americano, lottando con la tela e con il buio, insieme al colore avanza una certezza. Suona come una confidenza sussurrata, voce di silenzio sottile: «Comunque il nulla serve, perché senza di esso ci mancherebbe la coscienza che stiamo nascendo». Come il nero in un quadro.

Joseph Ratzinger ha particolarmente sofferto «la grande crisi della coscienza cristiana che, con gli eventi del 1968, divenne anche estremamente visibile e tangibile». Egli vide nella contestazione dell’ordine cristiano consolidato «quanto l’espressione di Martin Buber “tenebra di Dio” sembrasse ben corrispondere ai tempi». Vi resistette con intensità uguale e contraria a quella di chi lottava per togliere nella Chiesa i drappi alle finestre: «Ci sono le finestre, è vero, ma queste finestre sono coperte, la luce da fuori e dall’alto non vi penetra, Dio si nasconde».

Soltanto una coscienza comune a chiunque segua Cristo può liberare da un secolo di opposizioni, anche intra-ecclesiali: «Sapevo che il silenzio del sabato santo è pieno del Mistero della speranza». Non tutti muoiono sulla stessa croce, ciascuno viene crocifisso in ciò cui più tiene, i giudizi sul presente sono sfuggenti e molteplici, ma ogni cristiano può infine ammettere: «Proprio in quanto partecipe delle miserie della nostra generazione, mi sentivo chiamato a dar voce alla speranza, la quale, in verità, nell’ora del silenzio e dell’oscurità è particolarmente vicina». Allora, il tracollo di tutti i canoni — si pensi Congdon in rapporto a quelli dell’arte sacra — fa spazio a nuovi modi di raggiungerci da parte del Mistero. Risurrezioni.

di Sergio Massironi