In un saggio di Oiza Queens Day Obasuyi

Antirazzismo di facciata

Una foto simbolo del «White Saviour Complex» tratta dal sito Wear  Your Voice
03 aprile 2021

«Il razzismo non è un incidente, è un ecosistema». È dall’affermazione del filosofo, storico e scrittore camerunense post-coloniale Achille Mbembe, che Oiza Queens Day Obasuyi prende le mosse per descrivere e smontare i meccanismi che sottendono, anche inconsapevolmente, ogni atteggiamento razzista nella società italiana. Il suo Corpi estranei (Gallarate, People, 2020, pagine 156, euro 15) è un atto d’accusa nei confronti non solo di un contesto socioculturale che tende a giustificare il razzismo parlandone come fosse una forma di ignoranza, dimenticando il passato, ma anche verso una politica incapace di normare il fenomeno migratorio e che anzi in alcuni casi lo strumentalizza alimentando comportamenti xenofobi.

Obasuyi, 25 anni, nata e cresciuta ad Ancona, studiosa di diritti umani, migrazioni e relazioni internazionali, sa bene di cosa parla perché, come afro-discendente, ha sperimentato in prima persona un sistema di esclusione e discriminazione che di fatto esiste. Il suo intento, quindi, è quello di denunciare un Paese culturalmente arretrato nel rapporto con le minoranze etniche e le migrazioni. E per farlo propone un cambiamento del punto di vista. I protagonisti del libro, infatti, come spiega nell’introduzione «sono le persone nere — e di origine straniera in generale — che diventano dei corpi estranei e muti in un contesto che li nomina ma non li interpella, che se ne serve per propaganda ma non li ascolta. Le persone nere sono appunto corpi spersonalizzati, senza identità, pensieri, opinioni. Le persone nere sono a tratti degli invasori, oppure dei cuccioli da salvare. Sono da sfruttare, oppure da nominare per appuntarsi la propria medaglietta di antirazzista perfetto».

Il processo proposto dall’autrice è quello di decostruire il razzismo in Italia. «Chi non fa parte di una minoranza etnica difficilmente lo coglie, e spesso lo perpetua senza rendersene conto. Il razzismo è anche strutturale e sociale, è oppressione di classe, sono le leggi che non permettono di condurre una vita serena perché è difficile ottenere i documenti, e non averli costringe alla precarietà e allo sfruttamento. Il razzismo è non potersi mimetizzare tra la folla, bianca, perché sai già che il colore della pelle può essere elemento di accusa. Il razzismo è una questione culturale e storica, un passato coloniale rimosso con cui nessuno, o quasi, vuole davvero fare i conti. Il razzismo è continuare a vedere l’Africa come un posto in cui uno Stato vale l’altro, dove le persone attendono la benevolenza di qualche “salvatore bianco”, o il metro di giudizio utilizzato per sentirsi migliori. Il razzismo è non essere considerati italiani perché il colore della pelle ti tradisce».

Secondo Obasuyi, non c’è mai stata una presa di coscienza effettiva delle sfumature del razzismo, con i suoi sedimenti e stereotipi, e «la parte più complessa da decostruire è quella socio-culturale che è stata assorbita più o meno da tutti e tutte, per moltissimi anni». L’Italia è infatti quel Paese in cui si scrivono articoli sul primo avvocato nero e sul primo corazziere di colore. «Di certo — chiosa — fa piacere sapere che la realtà, sotto diversi punti di vista, stia cambiando, ma forse bisogna riflettere sul perché sorprenda tanto».

L’autrice punta il dito anche contro la narrazione stereotipata e disumanizzante di Africa e africani, quella del White Saviour Complex, «il complesso del salvatore bianco», che sottende un continente incapace di risollevarsi da solo e in perenne attesa di aiuto, dove le persone «sono sempre vuote, non hanno idee, né sentimenti o aspirazioni». Ma anche contro quella secondo cui l’Africa è tutta uguale, come fosse un unico Paese e non un continente fatto di vari Stati, diverse culture e tradizioni. Uniformare è più semplice ed è ciò che avviene anche per le persone, descritte, ad esempio, tramite pubblicità disumanizzanti e martellanti che invitano a donare per l’Africa: «Una vera e propria pornografia della disperazione e della sofferenza», la definisce.

Nel libro si sottolinea come non si tratti mai delle innovazioni e delle diverse realtà socio-politiche africane. «Anche quando si parla di attivismo si fa sempre riferimento a iniziative occidentali, dando l’idea che chi si attiva per l’Africa siano solo missionari, volontari bianchi o filantropi, europei e no, che donano soldi per sentirsi migliori», sottolinea Obasuyi. «Se si osservassero le realtà e le storie dei Paesi del continente africano con più attenzione, e con molto meno pregiudizio, si riuscirebbe a capirne la complessità, le differenze e quanto i popoli stessi si attivino contro le ingiustizie, senza aspettare gli eroi occidentali». Non a caso l’autrice parla di un privilegio nella narrazione della geografia, che porta a generalizzare e a parlare per stereotipi, sintomo «di una visione prettamente coloniale ed eurocentrica che continua a essere perpetuata anche a causa di un certo modo di fare informazione. Il rischio di un’unica storia, quindi di un’unica narrazione dei fatti di un Paese o di un intero continente, è che questo può privare le persone della loro dignità e della loro individualità».

Duro è il giudizio sulle leggi italiane sugli immigrati, che invece di aiutare pongono ostacoli. Ma al di là, della complessità di norme e procedure, spiega Obasuyi, «la semplice regolarizzazione non è sufficiente se poi non si pone rimedio anche alle numerose fratture sociali. In questa dicotomia si muovono quindi uomini e donne migranti, i quali, secondo la società italiana, non possono essere altro che criminali o persone sfruttabili, mai individui con dei diritti, mai soggetti pensanti con una storia e opinioni proprie, ma soggetti completamente disumanizzati». E questo in un contesto in cui la cittadinanza diventa “qualcosa che si merita”. Eppure, afferma, «la cittadinanza è il riconoscimento di ciò che si è, non un premio a punti per atti eroici. In Italia ci sono oltre ottocentomila giovani italiani senza cittadinanza ma si continua a non volerli riconoscere come parte integrante del tessuto sociale italiano perché in Italia il sangue, lo ius sanguinis, conta più di ogni cosa».

Quello della cittadinanza è un discorso che torna di frequente sul palcoscenico della politica. Tuttavia il più delle volte dietro parole cariche di buona volontà si nasconde quello che Obasuyi definisce antirazzismo performativo, di facciata, dettato dal trend del momento e basato su un interesse apparente più che su una profonda analisi, costituito da proclami e retorica più che da fatti.

Che fare, quindi? Per l’autrice «bisogna iniziare a comprendere che il razzismo non è l’episodio isolato del neonazista che disegna svastiche sui muri di qualche centro di accoglienza, o del giovane fanatico che aggredisce il coetaneo per il colore della sua pelle, o del politico che parla di sostituzioni etniche; il razzismo è parte integrante di un sistema basato sulle disuguaglianze sociali che si intrecciano con la razzializzazione degli individui». E l’Italia «è parte integrante di una realtà strutturalmente razzista: bisogna avere il coraggio di ammetterlo — aggiunge — e benché sarebbe auspicabile che questa ammissione arrivasse anche dalla classe dirigente, la verità è che quest’ultima risulta essere noncurante, sorda e inattiva rispetto alle richieste che puntualmente vengono fatte da chi subisce le conseguenze di un sistema sbagliato e ingiusto».

Per Obasuyi, l’unico modo per riuscire a smantellare il sistema è «la decostruzione, unita a una lotta per i diritti sociali» che contrasti le diseguaglianze. «È necessario dare alla luce nuove narrazioni, cercando di comprendere un punto di vista differente e una diversa chiave di lettura della società in cui viviamo. Forse è il caso di concedersi qualche momento di silenzio, ascoltare e dare voce, spazio e visibilità alle persone che ci sono sempre state, ma che per troppo tempo sono state ignorate. Affinché non siano più dei corpi estranei».

di Gaetano Vallini