Ponzio Pilato nella storiografia e nell’iconografia cristiana

Quel giudizio
che non fu un giudizio

Giotto, «Cristo davanti a Caifa» (1303-1305)
02 aprile 2021

Ponzio Pilato, prefetto della Giudea tra il 26 e il 37 d.C., è noto, per il tramite dei vangeli canonici, più per il cognomen Pilatus che per il gentilizio Pontius. Non essendo noto il praenomen, non è facile la perfetta identificazione del personaggio, anche se si è avanzata una lontana origine sannitica, in quanto un Caius Pontius Pilatus, proprio alla guida dei Sanniti, sconfisse i Romani a Caudium nel 321 a.C., durante la seconda guerra sannitica.

Sulla figura di Pilato proliferarono un discreto numero di scritti leggendari, agiografici ed apocrifi, mentre i vangeli canonici (Matteo 27, 11-26; Marco 15, 1-15; Luca 23, 1-7; Giovanni 18, 29-40) ne sottolineano la debolezza, l’indifferenza, l’adesione alla politica imperiale romana, quando, pur consapevole dell’innocenza del Cristo, lo fece crocifiggere, per accontentare i capi e la folla dei giudei.

Altre notizie sul carattere di Pilato provengono da Filone Alessandrino, che lo considerava irascibile, crudele, arrogante e volitivo e da Flavio Giuseppe, che ne sottolinea l’abilità politica, ma anche l’ostilità alle tradizioni giudaiche. Per quanto attiene la voce dei Padri della Chiesa, i giudizi oscillano: Origene accusa solo i giudei della morte del Cristo (Contra Celsum 2, 34), mentre Cirillo Alessandrino, commentando il Vangelo di Giovanni (19, 11-16), ripartisce la responsabilità tra il prefetto e il popolo di Gerusalemme. Più articolato risulta il pensiero di Giovanni Crisostomo, che, nelle omelie sul Vangelo di Matteo (86, 1), denuncia la complicità dei giudei, definiti dei veri e propri carnefici, e Pilato, considerato uomo debole e fortemente influenzabile. Lo storico Teodoreto di Cirro riprende questo giudizio, ricordando, però, che Pilato, in verità, non voleva condannare il Cristo, ma che prevalse la volontà della folla (Historia ecclesiastica 4, 85).

Passando alla letteratura patristica latina, l’apologista africano Tertulliano, nell’Apologeticum (21, 24) ricorda che Pilato, riferendo a Tiberio gli eventi relativi alla crocifissione del Cristo, è iam pro sua conscientia christianus, mentre Ambrogio, commentando il Vangelo di Luca (22, 63), attribuisce a Pilato una responsabilità, che non ha cancellato lavandosi le mani, in quanto, con estrema superficialità, si era fatto trascinare dalla crudeltà e dell’invidia dei giudei, un concetto ripreso anche da Agostino (Enarrationes in Psalmos 63, 4, 8).

Per quanto attiene la letteratura apocrifa, si ha notizia degli Atti di Pilato, che, secondo Eusebio di Cesarea (Historia ecclesiastica 2, 2, 1-2), furono composti contro Cristo e i cristiani e furono esposti al pubblico e proposti come testi da mandare a memoria nelle scuole. Il Vangelo di Nicodemo, invece, ripercorre il tracciato narrativo dei vangeli canonici, ma attribuisce la responsabilità della morte del Cristo ai giudei, mentre Pilato viene sostanzialmente scagionato. Una serie di scritti apocrifi creò un vero e proprio Ciclo di Pilato, che vede il prefetto della Giudea tanto turbato da giungere al suicidio.

Al Pilato storico si riferisce un’iscrizione rivenuta da Antonio Frova a Cesarea di Palestina nel 1961, dove, sia pure in maniera frammentaria, si fa riferimento al Tiberieum, un edificio onorario e cultuale, dedicato da Pontius Pilatus praefectus Iudaeae, a Livia Drusilla ed Augusto, genitori di Tiberio. L’iscrizione — contemporanea alla passione di Cristo — può essere riferita al restauro del teatro di Cesarea, commissionato dal prefetto, in seguito al sisma che, assieme alla lunga eclissi solare, interessò i territori intorno a Gerusalemme, proprio in coincidenza con la morte del Cristo, come suggeriscono i sinottici (Matteo 27, 45; Marco 15, 33-39; Luca 23, 44-45).

L’arte cristiana propone una rappresentazione del giudizio di Pilato solo nel maturo secolo iv , dopo la pace costantiniana, in quanto l’episodio riveste un ruolo negativo e “passionale” rifiutato dall’iconografia cristiana più antica. La scena appare nei cosiddetti “sarcofagi di passione”, che includono — accanto agli episodi veterotestamentari — situazioni drammatiche relative alla passio Christi, ma anche all’arresto di Pietro e Paolo. Al centro di questa teoria di scene si inserisce il signum salvifico dell’anastasis, ossia il cristogramma in corona sulla croce trionfale, affiancata dai due soldati romani, posti a guardia del sepolcro del Cristo, addormentati e/o storditi dalla luce della risurrezione.

Le rappresentazioni del giudizio di Pilato — nell’ambito di questa classe di sarcofagi ideata in un atelier romano — propone un gruppo di personaggi e oggetti, che attorniano il prefetto di Galilea, assiso, pensoso, con la mano al mento, per significare l’umore malinconico, che si trova dinanzi ad un fatto tragico, recuperando l’atteggiamento mitologico di Medea e di altri protagonisti di episodi drammatici. Non a caso, il gesto della mano portata al mento, caratterizzerà l’atteggiamento di Pietro nella premonizione del ter negabis e, paradossalmente, quello di Maria e Giuseppe nelle scene di Natività, per esprimere ed anticipare il destino del Cristo. 

Attorno a Pilato — si diceva — si addensa un piccolo manipolo di personaggi e attributi, a cominciare dall’adsessor, che, talora, si stringe le ginocchia, secondo un gesto simbolico e antico per significare un estremo dolore. E non mancano altri cortigiani, consiglieri e militari, mentre un camillus reca i recipienti per il lavaggio delle mani, ossia la patera e l’urceus.

In qualche caso, compare il suggestus,  ossia la tribuna, che allude all’azione della condanna, la sella curulis, su cui è solennemente assiso il giudice, la clessidra che cadenza i tempi del processo e la struttura del praetorium, dove si svolgono i fatti.

Tra i sarcofagi celebri, che accolgono la scena, negli anni centrali del iv secolo, emergono lo splendido sepolcro di Giunio Basso, praefectus Urbis morto nel 359 e il pressoché coevo esemplare dei “due fratelli”, conservato nel Museo Pio Cristiano, laddove è esposto anche il raffinatissimo sarcofago, proveniente dalle catacombe di Domitilla. Qui, sfilano anche le scene salienti della passio Christi, ovvero il cireneo che aiuta il Cristo a portare la croce, l’incoronazione di spine, il “faccia a faccia” di Gesù e Pilato, mentre, al centro, esplode, in tutta la sua solennità il segno rigenerativo dell’anastasis, ossia il simbolo, che associa il patibulum alla corona del martirio, ovvero il paradosso, che assimila il dramma della morte e la luce della Risurrezione.

Il gesto significativo del lavaggio delle mani, ricordato unicamente da Matteo (27, 11-26), esce dall’orbita della plastica funeraria romana e approda nella lipsanoteca eburnea di Brescia, dell’ultimo scorcio del iv secolo, in una formella della porta lignea di Santa Sabina, della prima metà del v secolo, in un quadro del ciclo cristologico teodoriciano dell’apparato musivo della basilica palatina di Sant’Apollinare Nuovo in Ravenna, già del vi secolo.

In questi ultimi monumenti, entrano anche le rare scene, che rievocano il momento in cui il Cristo venne condotto dinanzi al Sinedrio, l’organo preposto alla emanazione delle leggi e alla gestione della giustizia a Gerusalemme. Al tempo di Gesù, ne fu sommo sacerdote Caifa, appartenente alla dinastia dei Sadducei. I vangeli ricordano che i sommi sacerdoti del Sinedrio, al tempo di Gesù, pagarono Giuda perché lo tradisse. Dopo l’arresto, il Cristo fu condotto prima ad Anna, che, pur anziano, esercitava una grande influenza nel Sinedrio, e poi a Caifa. Seguiamo la sequenza dei fatti, con le parole di Matteo: «Quelli che avevano arrestato Gesù lo condussero dal sommo sacerdote Caifa, presso il quale si erano riuniti gli scribi e gli anziani (...) I capi dei sacerdoti e tutto il sinedrio cercavano una falsa testimonianza contro Gesù, per metterlo a morte (...) finché si presentarono due testimoni, che affermarono: «Costui ha dichiarato: Posso distruggere il tempio di Dio e ricostruirlo in tre giorni». (...) il sommo sacerdote gli disse: “Ti scongiuro, per il Dio vivente, di dirci se tu sei il Cristo, il Figlio di Dio”. “Tu l’hai detto”, gli rispose Gesù (...). Allora il sommo sacerdote si stracciò le vesti dicendo: “Ha bestemmiato!”» (Matteo 26, 57-68).

Già nel ciclo cristologico del Sant’Apollinare Nuovo, accanto al giudizio di Pilato, spunta il drammatico momento in cui Giuda restituisce i denari a Caifa ma, mantenendoci nello stesso frangente cronologico, possiamo considerare due miniature del Codice Purpureo di Rossano Calabro: la prima rappresenta il solenne giudizio di Pilato, al cospetto di Caifa e Anna, la seconda “fotografa” la restituzione delle trenta monete ricevute da Giuda per il tradimento ancora al sommo sacerdote Caifa e all’anziano Anna, mentre, sulla destra, Giuda si impicca. 

Il ciclo del processo a Gesù si conclude con una significativa pagina miniata del Codice Purpureo di Rossano Calabro. Pilato è al centro della rappresentazione, affiancato da due gruppi di personaggi che gesticolano per chiedere la condanna del Cristo. Tra gli altri, emerge un notarius che verbalizza il processo, decidendo di “barattare” la vita del Cristo con quella di Barabba. 

di Fabrizio Bisconti