Anatole France riletto da Sciascia

Quanta nostalgia

Ignazio Jacometti, «Ecce homo»
02 aprile 2021

«Si chiamava Gesù, Gesù il Nazareno, e fu crocifisso non so bene per quale crimine. Ponzio, ti ricordi di quell’uomo? Ponzio Pilato aggrottò le sopracciglia e si portò la mano alla fronte, come chi cerca qualcosa nella propria memoria. Poi, dopo qualche istante di silenzio, mormorò: “Gesù? Gesù il Nazareno? No, non mi ricordo”».

È la conclusione, fulminea e traumatica, con la quale Anatole France chiude il suo Procuratore della Giudea, giustamente celebre, e non solo per la perfezione formale del racconto, ma per la sua forte e decisa apologia dello scetticismo. Il racconto, in effetti, inizia nei Campi Flegrei, dove soggiornano per ristorare corpo e spirito, Pilato — ormai vecchio e distaccato da tutto — e l’amico Elio Lamia. Qui entrambi ricordano il passato di Pilato in Giudea, parentesi turbolenta di una carriera poi conclusa nel peggiore dei modi, fino a quando la conversazione si sposta sul Nazareno morto sulla croce e in cui Pilato rivela, all’improvviso, una spiazzante dimenticanza. Elio Lamia, al contrario, ricorda con nostalgia quella terra, soprattutto perché non riesce a dimenticare una bellissima danzatrice ebrea, scomparsa all’improvviso per seguire i discepoli di quell’affascinante maestro.

La dialettica tra memoria e oblìo, dunque, sembra essere al centro di questo perfetto capolavoro di France, pubblicato nel 1902 in una edizione numerata di 430 esemplari e illustrata da disegni di Eugène Grasset. L’oblio della «nuda vita» per Pilato, con i suoi fallimenti e i suoi taciuti rimpianti, per un verso. E, per altro verso, la memoria delle vicende attraversate, il ricordo dell’amore, per Elio Lamia, il quale pare alludere al fatto che la fede cristiana abbia introdotto proprio l’amore nel mondo attraverso il messaggio di quel Gesù dimenticato da Pilato. Il cuore umano, per France, come nido di contraddizioni, ma tenacemente attaccato alla nostalgia dell’amore, come nel caso di Elio Lamia.

Leonardo Sciascia, in una bellissima e suggestiva Nota alla sua traduzione del Procuratore della Giudea, per i tipi della Sellerio nel 1980, rileva, da par suo, questa drammatica e illuminante contraddizione che era, forse, anche la sua a proposito di una fede dimenticata ma sentita con segreta e inesauribile nostalgia. Di fatto, Il Procuratore della Giudea, è un’apologia dello scetticismo, anche se opportunamente Sciascia annota: «Si può dire anzi che questa formula è suscettibile di contraddizione e rovesciamento: supremo omaggio, in definitiva, dello scetticismo a se stesso. E la contraddizione e il rovesciamento stanno nella memoria di Elio Lamia di fronte alla non-memoria di Ponzio Pilato (e alla quasi non-memoria di Tacito). Libertino, passionale, tollerante, curioso, saggio che non rinnega la follia, Elio Lamia ricorda: contro il procuratore — e lo storico — che non ricordano. Ricorda per amore: e sia pure per amore, per carnale e sensuale ricordo d’amore, di una donna da trivio. Tutto che è amore conduce al Cristo, al cristianesimo: e come Maria Maddalena ha seguito Cristo, così, seguendo l’amoroso ricordo di lei, Elio Lamia arriva a ricordare Cristo. Ed ecco dunque che lo scettico France, e il suo scettico apologo, si consegnano all’amore. Forse svagatamente: ma spesso gli scrittori non sanno quel che si fanno».

È una notazione che solo Sciascia poteva concepire tanto è precisa e capace di scendere in una lettura del testo tutt’altro che semplicemente espositiva o accademica. Sciascia scava nell’abisso dell’anima dello scrittore a cui sfugge, velatamente o esplicitamente, una verità che corrode ogni certezza razionale, e perfino accettata, ma sospinta verso un esito quasi di ansia o di orizzonte religioso. Una nostalgia, appunto, difficile da precisare e definire, ma concreta e tangibile come un rovello o il tarlo del dubbio. Qualcosa che accomuna la contraddizione o l’utopia (come la definisce Emilio Faccioli) di La rosticceria della Regina Pédauque a II Procuratore della Giudea, almeno nella sua fase di autentica forza inventiva.

Come ha scritto ancora lucidamente Emilio Faccioli, se la critica accademica ha dato di France un giudizio fortemente restrittivo, a motivo della sua stretta «letterarietà» con il gusto e la cultura del suo tempo, è altrettanto vero che «malgrado il rischioso piacere di collezionare paradossi, nel quadro della sua produzione si danno alcuni casi avventurati di una letterarietà che esce dall’inane aggirarsi nel dedalo delle simulazioni, delle mistificazioni e dei sofisticati pastiches, di una letterarietà che senza rinnegarsi si entifica come momento generatore di un’innegabile tensione creativa».

«Gesù? Gesù il Nazareno? No, non mi ricordo». Quando, molto giovane e inesperto, lessi per la prima volta II Procuratore della Giudea, attratto anche dal nome di Sciascia, rimasi quasi sconvolto da questa affermazione perentoria di scetticismo che mi parve, tra l’altro, nient’altro che una provocazione a carattere polemico e giornalistico. Non si deve dimenticare che, agli inizi del Novecento, epoca in cui France scrisse il suo racconto, era più che mai in auge la polemica sul modernismo. L’opera di Loisy, Il Vangelo e la Chiesa, era apparsa in Francia un anno prima (1902) e voleva dimostrare, contro Harnack, la continuità che lega la buona novella all’organizzazione ecclesiale. L’enciclica Pascendi di Pio x è del 1907. Dunque, il clima era abbastanza surriscaldato intorno alle origini cristiane.

Da parte mia, ormai a distanza di decenni, ma ancor giovane, non mi rendevo conto che ogni affermazione di scetticismo nasconde, nel suo seno, ben altre profondità del cuore umano e, quindi, anche lacerazioni e contraddizioni. In letteratura, poi, l’uomo fa sempre più o meno tematicamente l’esperienza del vuoto, della fragilità interiore e dell’assurdità che incontra in se stesso e di cui la scrittura è, dopo tutto, il vero testimone.

di Carmelo Mezzasalma