Elena Bono e il sogno di Claudia

La moglie del Procuratore

 La moglie del Procuratore   QUO-075
02 aprile 2021

Sono passati circa ventotto anni dalla morte di Cristo. Claudia Serena Procula, ormai vedova, è scesa a Roma dalla sua residenza nel mantovano, nel tentativo di incontrare Paolo di Tarso, ugualmente presente nella capitale dell’impero. Lucio Anneo Seneca, vecchio amico e confidente della donna, le recapita una lettera di invito a una festa che si terrebbe nella sua villa all’Esquilino.

Il racconto si apre con la missiva: Seneca si esprime con raffinata misura, evoca la dolcezza dei sentimenti; in pochissime, magistrali righe, ci viene offerto un tratteggio del filosofo e del suo mondo: «L. Anneo Seneca e quella Paolina che tu hai conosciuta fanciulla rosea come l’aurora [...] offrono una festa nella loro casa sull’Esquilino. Non ti spaventi, carissima, la parola festa, quasi immagine di un mare fragoroso e popolato di spaventevoli creature. Non troverai presso di noi alcun mostro di enormi dimensioni, non immania cete, Claudia, ma solo la normale degli spinosi piccoli pesci e piccoli granchi umani. E anche — perché no? — qualche bel fiore marino».

Poco oltre, l’anziano intellettuale rivolge a Claudia un secondo invito: «Abbiamo molte cose tu ed io, di cui parlare. Noi siamo oltre le soglie, Claudia. E vi sono dei morti che ci tengono con mani tenaci». Seneca allude alla crocifissione di Gesù, evento intorno al quale c’è alone di mistero, collegato alle nascenti comunità cristiane a Roma.

Claudia ha avuto la vita segnata da quell’evento, che la spinge a voler incontrare — quasi una forma di implorazione — l’apostolo delle genti.

Scorrendo le pagine, si nota come protagonista ne sia la morte. Non solo l’episodio dell’esecuzione: vi è una costante, capillare evocazione, che fa dell’estremo limite dell’uomo il nucleo centrale del racconto.

È suggestivo intravederla in filigrana sin dai quadri di apertura. Claudia entra nella villa di Seneca e scende verso il triclinio, dove sono riuniti gli altri convitati: «La signora procedeva silenziosa [...] lungo le pareti da un busto all’altro degli Annei defunti [... ] il greve odore delle piante». Ancora: «Nel giardino [...] i cespugli erano come tumuli sparsi. L’ombra delle statue si muoveva incerta sul muro, veniva dalla notte un lamento di vento. Gemettero sotto la sua mano le grandi porte incrostate d’avorio [...]. Nessuno stava a guardia dei preziosi doni degli ospiti lì ammucchiati». Infine: «Un uomo stava appoggiato contro lo stipite [...]. Le pupille gli rotearono vagamente nel bianco. “E neppure qui”, indicò se stesso, “ci troverai niente di buono... che però il mio cuore è pieno di lutto...”».

Nella sala tricliniare, gli amici di Seneca assistono alla Cassandra di Seneca declamata dal nipote Lucano. Vi sono tutti i rappresentanti del jet set e dell’intellighenzia del tempo, l’espressione più chiara del potere culturale e politico di quel mondo. Non casualmente, è con Seneca (filosofo, tragediografo, politico, precettore di Nerone), che di quella realtà esprime il valore più nobile, che avverrà il dialogo, il confronto drammatico con la testimonianza di Claudia. Altrettanto non casualmente, tutti i presenti troveranno la morte (ancora) per volere del principe, che li costringerà al suicidio, rei di aver architettato la congiura dei Pisoni.

La comparsa di Claudia genera curiosità ed eccitazione, e innumerevoli — comprensibilmente — sono le domande che sorgono, che la donna invece tacita raggelando l’interesse: «Di solito me ne sto sepolta fra le nebbie padane».

Anche della morte di Pilato, avvenuta parecchi anni addietro, non si era saputo molto. Tra i convitati il discorso si sposta velocemente sui fatti strani accaduti in Galilea, i seguaci di quel profeta, la sua dottrina del bere il sangue. Claudia nega ancora: «Non so nulla»; «Non so nulla di preciso». Non vuole rispondere, l’argomento la turba, ogni allusione è rifiutata. Seneca si avvede della difficoltà e protegge l’amica; la fa accompagnare da Paolina verso la stanza preparata per lei.

E nel dialogo fra le due donne, sulla scia dei comuni ricordi di giovinezza e delle stesse speranze deluse, affiora l’inquietudine, quella esistenziale per Paolina, quella della memoria per Claudia: «“E c’è un’altra cosa”, mormorò Paolina come lontana, “una cosa che non dice nessuno. Del resto non si sa come dirla... Ecco, è come se, in qualche modo, per qualche ragione, avessimo... non so... fallito lo scopo (...) Anche da morti, ho paura, continueremo a chiederci che cosa dovevamo fare, che cosa dovevamo essere da vivi, che cosa ci è mancato (...) Povera Claudia, ti sto rattristando inutilmente; la tua vita, grazie agli dei, è molto diversa. Tu non puoi immaginare quel che ti è stato risparmiato...”.

«“Paolina”, disse la signora stringendole le braccia, “non sai a chi parli tu... a quale vita, a quali dolori, Paolina. Dovrei raccontarti tante cose e nessuno le crederebbe. Nessuno”.

«“Da quel che abbiamo dentro, non ci difende nessuno, Paolina...”. “Lo so”».

Prima di coricarsi, Claudia chiede alla schiava di colore Lulla un sonnifero: «Dovresti farmi un piacere... portarmi un po’ d’acqua di papavero. Acqua di sonno, sai, vero? Dormire, Lulla». Torna la serva: «Cleonico manda questo. Dice Cleonico a domna: “Domna, conta tu gocce come dita in questa mano”».

È l’ansia di cancellare l’irrisolto di una vita: tutto l’imbarazzo di fronte alle domande dei convitati; il diniego di rispondere e lo stridore tra il loro vano chiacchiericcio e il suo montante disagio, l’essere sempre meno presenti a sé stessi portano in superficie la schiuma di veleno che intorbida l’anima di Claudia. Non solo nel sogno la notte prima della crocifissione, ma lungo il corso di tutta la sua vita, la moglie di Ponzio Pilato, come il procuratore, è stata braccata dai ricordi, l’anima inseguita da quesiti mai risolti.

di Francesco Marchitti