Atlante - Cronache di un mondo globalizzato

170 milioni
di bambini schiavi
assicurano il benessere
delle società ricche

A migrant boy looks to a member of the Guardia Nacional (National guard)  before crossing with his ...
02 aprile 2021

Centosettanta milioni di bambini sono rotelline oscure di quella che la crisi di Suez ci ha insegnato a chiamare supply chain, ossia catena della distribuzione.

Il mondo ha assistito al panico che saliva davanti alla nave gigante incagliata di traverso nel canale, un boccone nella trachea del mercato globale che si è dibattuto per riprendere fiato. Abbiamo scoperto, così, che la supply chain è la base dei nostri stili di vita: quel che mangiamo, i mobili che montiamo, i computer per smart working e dad, i pacchi che ci piovono a domicilio a 12 ore dall’ordine. Quel che non sappiamo, o che non vogliamo sapere visto che i dati ci sono, è che senza 170 milioni di bambini sfruttati nelle miniere e nei campi, la supply chain non girerebbe.

Il nostro stile di vita dipende dalle supply chain, almeno dalla loro struttura attuale. Ed il lavoro minorile è una buona parte del lavoro nero e schiavo che le alimenta, risucchiando tutti i profitti verso la parte finale della catena. Fra quei 170 milioni indicati dalla Confederazione mondiale dei sindacati (Ituc) ci sono, ad esempio, i piccoli schiavi del coltan che serve a produrre i nostri smartphone. L’80% di questo minerale viene dalla Repubblica del Congo. Il coltan, che non richiede profonde gallerie, è estratto con le mani da migliaia di bambini, rapiti per questo o “volontariamente” arruolati. La supply chain parte anche da qui, al prezzo di pochi spiccioli in cambio di vite umane usa e getta. Talvolta, solo talvolta, si incaglia, come nel canale di Suez.

E non c’è solo il coltan: ci sono i campi, dove il 70% dei piccoli schiavi del pianeta è impiegato per un’industria agroalimentare che sovrappone gli schemi globali del profitto alle necessità delle comunità locali.

Le Nazioni Unite, che hanno fatto del 2021 l’anno della lotta al lavoro minorile, sanno che questa piaga planetaria è trasversale a tutti e 17 gli obiettivi che si è data per raggiungere la meta dello sviluppo sostenibile. Va risolta, dunque, a partire dalla «guarigione» della supply chain, che non deve necessariamente alimentarsi di lavoro sfruttato e minorile per poter esistere e crescere all’infinito per commerciare caffè, cacao, cotone.

Rendere giustizia ai bambini del Pianeta è dunque necessario, razionale. Potrebbe essere garanzia di stabilità e pace. Invece i bambini vagano soli alle frontiere che si spalancano per le merci della quali sono i servitori. Vengono separati dai genitori, sfruttati sessualmente, privati della scuola. Muoiono sui barconi del Mediterraneo. Restano a tre anni abbandonati fra i canneti del Rio Grande, in Messico. Muoiono in marcia nel Tapon del Darien, cento chilometri di giungla fra Colombia e Panama senza un sentiero, ma da dove sono emersi vivi 6.240 piccoli migranti in quattro anni. 11 nilioni di bambine sono state espulse dalla scuola durante la pandemia e non vi rientreranno.

Ma i laboratori di futuro esistono. E i bambini sono la loro scommessa. A Napoli, nel quartiere di Scampia — come ci racconta Daniela De Crescenzo nella nostra controcopertina — una creativa realtà di persone ogni giorno li affianca ottenendo anche una clamorosa fioritura della comunità fatta di teatro, cineforum, aggregazione, scuola itinerante, laboratori di meccanica, librerie e artigianato. Riprendendo, fisicamente, i luoghi di spaccio alla camorra. Scampia, che concentra le piaghe del mondo, è il più straordinario laboratorio umano e cantiere sociale in corso. Dal mondo a Napoli, una strada possibile.

di Chiara Graziani