DONNE CHIESA MONDO

Sguardi diversi

La memoria promessa

Tombe di migranti alcune ancora senza nome nel cimitero di Lampedusa decorate dall’artista Armin Greder (facebook.com/muttysocial, facebook.com/BiblioLampedusa)
03 aprile 2021

Tre donne ridanno un nome ai naufraghi del Mediterraneo


«Il ragazzo è morto, in un modo o nell’altro è morto, e questo le basta per andare a trovarlo». Così inizia il libro inchiesta Uomini e caporali. Viaggio tra i nuovi schiavi nelle campagne del Sud di Alessandro Leogrande. Grande scrittore e intellettuale, che ha dedicato tutta la sua breve vita «in difesa degli ultimi e dei ferocemente sfruttati nei più diversi contesti», come scrive il padre annunciandone la morte improvvisa, due anni fa.

Il ragazzo è uno straniero che lavorava nei campi. Un camion gli è passato sopra rendendolo irriconoscibile. È interrato in un cimitero nel cuore del Tavoliere delle Puglie. C’è una croce a indicare la sepoltura con su scritto a stampatello sconosciuto .

«Incoronata è ossessionata dal fatto che si possa morire senza avere un volto, e senza essere pianti». Così, questa vecchia bracciante avvolta nel suo inseparabile scialle prende l’abitudine di dividere i fiori tra la tomba del marito e quella croce nuda. Poi decide di far costruire una tomba con la data di morte, una breve preghiera, l’immaginetta di una Madonna e, in cima, la parola ignoto in lettere di bronzo, come fosse un nome proprio. Da questi gesti pian piano affiorerà una fisionomia, un nome, Miroslaw, una nazionalità, polacca, un’esistenza, una storia di sfruttamento bracciantile e violenza. Qualcosa che è un ricordo.

«Una persona è veramente morta quando nessuno si ricorda più di lui», scrive Bertold Becht.

E dall’oblio dannato degli insepolti privi di identità arrivano infatti i soldati della Grande Guerra nel bellissimo film J’accuse di Abel Grance (1919). Zombie che denunciano la disumanità della guerra e la condizione di chi è solo uno tra migliaia di cadaveri indistinti su un campo di battaglia di cui i vivi hanno perduto memoria. Come a dire: relegare i morti nella terra di nessuno dell’indifferenza impietosa ne fa zombie, spettri che prima o poi atterriscono le nostre coscienze assuefatte all’oblio.

Mediterraneo, luglio 2016. «Nella stiva abbiamo trovato uno strato di materiale biologico alto 80-90 centimetri steso lungo tutti i 23 metri della nave. Erano persone». Così l’ingegnere capo dei Vigili del fuoco calatisi in profondità per recuperare i mille naufraghi intrappolati nel peschereccio egiziano colato a picco nel Canale di Sicilia un anno prima, il 18 aprile 2015, racconta una delle più spaventose tragedie della migrazione. Un groviglio di tessuti umani, vestiti e oggetti. Non era rimasto nient’altro. Provare a dare un nome ai morti prima di seppellirli era «un dovere di civiltà» spiega Cristina Cattaneo, ordinario di Medicina Legale alla Statale di Milano. È stata lei tra gli anatomopatologi a cercare fisionomie di persone tra quell’indistinto «materiale biologico». Tre mesi di lavoro alla base Nato di Melilli in Sicilia. Dalle sue minuziose anatomie è affiorata la pagella con la media del dieci cucita nella giacca del ragazzino del Mali o della Mauritania; l’angolo della maglietta annodata con uno spago rosso dove un altro ragazzo custodiva un pugnetto della propria terra. In quei frammenti di identità sottratti all’indistinto c’è insomma quella comune umanità fatta di aspirazioni, speranze, dolorosi distacchi in cui riconoscersi. Tu sei come me. Io sono come te. E questa ecatombe della quale rischia di non rimanere traccia è una barbarie che riguarda entrambi. D’altro canto, le migliaia di morti inconsolate e anonime della pandemia di Covid19 ci ha costretti a provare sulla nostra stessa pelle cosa vuol dire finire in un conteggio di «record di morti» quotidiane.

Il legame che unisce donne e cura dei defunti è evocato con tono sarcastico ma con indiscutibile verità anche in un passaggio dell’Ulisse di James Joyce. «Un compito che si addice loro», pensa il protagonista Mr Bloom, come corollario alle pene del mettere al mondo.

Io stessa l’ho sempre vista, almeno qui al sud, la dimestichezza delle donne nel trattare la morte, il corpo da comporre in una posa che desse dignità: chiudere gli occhi, ammorbidire l’espressione del viso, mettere indosso il vestito buono. Un modo di contrastare la trasfigurazione e, in un gesto estremo, custodire il tratto che identifica, rende riconoscibili. Una forma di pietas per i morti e anche per i vivi che li piangono.

E sempre una donna, la ricercatrice Giorgia Mirto, dal 2011 gira cimiteri e uffici di Stato civile per cercare indizi sulle migliaia di vittime dei naufragi seppellite in diversi comuni del Sud Italia e della Sardegna. Ci tiene a dire che il suo «non è un mero calcolo». «Faccio in modo che si sappia cosa è accaduto, che di quella persona possa sopravvivere qualcosa alla morte stessa, almeno nel ricordo dei propri cari». Parole che suonano ancora più necessarie se pensiamo a come famiglie, estenuate dalla ricerca del proprio caro, abbiano deciso infine di adottare una tomba qualsiasi.

Osservare Giorgia Mirto aggirarsi nel Campo 220 del cimitero dei Rotoli di Palermo dove si respira un’aria di abbandono, vederla chinarsi sui quadratini di carta riparati da un cellofan e segnare su un taccuino le poche informazioni riportate è come assistere a una preghiera laica.

La medesima carica spirituale richiede un’opera come Salāt dell’artista Emanuele Lo Cascio realizzata in occasione del progetto Più a Sud del 2012. Una stele di marmo nero specchiante innervato di onde che riproduce esattamente un frammento di mare di Lampedusa. Le dimensioni sono le stesse del tappeto di preghiera musulmano. Perché? «La scultura chiede all’osservatore un momento di concentrazione, di riflessione nella solitudine, di rispettosa preghiera… Il mare nella sua profondità è sempre calmo, silenzioso, meditativo, detentore di misteri, di vita e di morte. Questo frammento di mare agitato in superficie, artefice di naufragi disperati ma anche di speranze, e di salvezze, cela questo nella sua invisibile profondità».

Dalle invisibili profondità di questo tappeto di mare e di raccoglimento hanno trovato a Lampedusa non solo una sepoltura, ma un gesto contro la «deumanizzazione», molte vittime della catastrofe umanitaria che quest’isola sperimenta dalla seconda metà degli anni Novanta. Sono del ’96 o ’97 i 13 corpi interrati in un fazzoletto di terra che il custode del cimitero ha seppellito avendo cura di mettere delle croci sopra le sepolture. A chi gli ha contestato quella decisione ha risposto con l’intelligente umanità degli umili: «Per me, mettere le croci è stato come dire siamo tutti uguali». Questa storia me la racconta Paola La Rosa (volontaria della Biblioteca Ibby e aderente al Forum Lampedusa Solidale) che dal 2003, quando ha deciso di venire a vivere nell’isola, contrasta «l’intero sistema di accoglienza, basato su una logica che presuppone la deumanizzazione e spersonalizzazione degli individui, tanto più deprecabile quando applicata ai morti». Gli indifesi tra i più indifesi, mi viene da pensare: i morti, e i morti senza un nome.

Così con il Forum Lampedusa Solidale ha sempre accolto al molo Favaloro i salvati con un po’ di tè caldo, ha avvolto in coperte termiche i sopravvissuti. Si è opposta all’oscenità delle targhe volute dal sindaco Bernardino De Rubeis nel 2011 quando a Lampedusa arrivarono almeno 50mila persone. Un annus horribilis con naufragi e costi umani pesantissimi. Quelle targhe adesso può capitare di vederle dismesse in qualche angolo del cimitero: immigrato non identificato di sesso maschile etnia africana colore nero.

Al Forum e al lavoro di Paola La Rosa si devono i nomi (Ezechiel, Yassin, Ester Ada, Welela, della quale c’è pure una foto inviata dal fratello), le date, le circostanze dei naufragi o dei ritrovamenti, frammenti di storie, e anche dettagli come i «quattro interminabili giorni» in cui il mercantile turco Pinar con il corpo esanime di Ester Ada fu lasciato in mare prima di autorizzarne l’approdo. Perché nel 2009 già 4 giorni di fermo al largo facevano scandalo. Per questo il cimitero è una tappa fondamentale per chiunque voglia capire il dramma della migrazione. Anche lo scrittore e artista Armin Grader nel 2018, arrivato a Lampedusa per un progetto di volontariato, ha fatto il suo pellegrinaggio con Paola La Rosa e ha sentito il bisogno di «umanizzare» quelle tombe e le loro esili storie, decorando le lapidi con disegni marini: pesci, isole, gabbiani, conchiglie, stelle di mare. Un dono di bellezza.

I funerali di Yusuf Ali Kanneh, il neonato di 6 mesi partito dalla Guinea insieme alla madre, morto nel naufragio dell’11 novembre 2020 al largo della Libia, sono strazianti. Sollevano una domanda difficile: come fare in modo che il ricordo diventi una memoria in qualche modo condivisa? A dare la risposta è uno scialle, come lo scialle di Incoronata. Una donna lampedusana, durante i funerali, istintivamente avvolge uno scialle all’uncinetto attorno alla madre di Yusuf, giovanissima, 18 anni da compiere. E cosa è uno scialle fatto all’uncinetto?

È un mondo fatto di tessitura, di gratuità, di bellezza mai assurta alla dignità di arte proprio perché legato al mondo domestico femminile, è uno dei pochi gesti compiuti dalle donne tra le mura di casa non effimeri, è un momento in cui si lavora insieme, si fa comunità.

Da qui l’idea di creare un Deposito di memoria attraverso le storie e i lavori all’uncinetto: un quadrato lavorato a mano e un ricordo personale che si vuole salvare dall’oblio da inviare al Forum Lampedusa Solidale come gesto di affiliazione a una comunità internazionale che si riconosce nei valori della persona. Lanciare sui social il progetto e ricevere migliaia di mattonelle all’uncinetto insieme a storie private (da Italia, Germania, Francia, Perù) è un attimo. Nasce così «La coperta di Yusuf». Tanti quadrati cuciti insieme per evocare questa comunità ideale disseminata nel mondo che vuole lasciare un segno di memoria, intessere una Storia diversa fondata sulla cura, gesto storicamente femminile, ma inclusivo. Anche tanti uomini hanno aderito. Un modo di stare al mondo.

«La nostra idea era che ci fosse una trama fatta di storie singole che attraverso l’ordito della trama creassero una storia unica», spiega Paola La Rosa.

Il primo luogo dove saranno portate le 11 coperte già cucite sarà proprio la tomba del piccolo Yusuf. I luoghi di memoria, d’altro canto, servono a rammentarci anche chi siamo diventati, non solo chi siamo stati, spiega lo storico Pierre Nora.

Così, Lampedusa, il Mediterraneo, la rotta balcanica, tutti i luoghi dove da decenni si consuma questa catastrofe umanitaria mettono alla prova la nostra civiltà: ci dicono appunto chi siamo diventati.

Infine, se ogni volta che si racconta una storia, storie esili destinate all’oblio, si torna a dare dignità e vita alle esistenze, allora questo mio stesso articolo vuole essere, a suo modo, una forma di resurrezione.

di Evelina Santangelo

L'autrice

Scrittrice ed editor.  Per Einaudi ha pubblicato i racconti  L’occhio cieco del mondo (per cui ha ricevuto il premio Berto e il premio Mondello) e diversi romanzi, tra i quali:  Senzaterra e Da un altro mondo (libro dell’anno 2018 Fahrenheit Rai-radio 3; Superpremio Sciascia). Sempre per Einaudi ha curato  Terra matta di Vincenzo Rabito, ha tradotto  Firmino di Sam Savage e  Rock ’n’ Roll di Tom Stoppard. Suoi articoli sono usciti su quotidiani, blog e settimanali nazionali.