Storie di detenuti a Rebibbia in un libro di suor Emma Zordan

La pandemia
raccontata dal carcere

  La pandemia raccontata dal carcere   QUO-073
31 marzo 2021

«Non tutti sanno che in carcere si può anche morire di carcere». È il cuore di una delle riflessioni più forti contenute nella raccolta di scritti dei detenuti della casa di reclusione di Rebibbia curata da suor Emma Zordan, religiosa delle Adoratrici del sangue di Cristo e volontaria da sei anni nel carcere romano. Nel volumetto di prossima uscita intitolato, non a caso, «Non tutti sanno…», i “ragazzi” di suor Emma hanno voluto raccontare la loro doppia reclusione evidenziando la difficoltà di sopravvivenza, il desiderio di amore, il difficile cammino di redenzione e di reinserimento nel tessuto sociale. «In questo periodo di lockdown in cui sono impossibilitata a visitare i detenuti, il mio pensiero non riesce a stare a casa», rivela la religiosa. «Abbattendo muri e inferriate e infrangendo divieti, corro continuamente da loro, persone private di ogni conforto, di tutto ciò che possa rendere meno grigie, fredde e buie le loro giornate, meno pesanti le restrizioni imposte dalla terribile pandemia».

Attraverso questo piccolo sforzo editoriale, suor Emma vuole far conoscere l’emergenza covid-19 in carcere, i conseguenti provvedimenti restrittivi che hanno visto la sospensione temporanea dei colloqui visivi con i propri familiari, l’interruzione di tutte le forme di volontariato, fonte di massimo aiuto per coloro che si trovano ristretti negli istituti. Ci siamo chiesti più volte come spiegare questo evento nefasto epocale a persone già private della libertà e che difficilmente avrebbero compreso ciò che stava accadendo fuori. La risposta è arrivata proprio da loro ed è stata sorprendente. «A volte mi rassicurano», riprende raccontando che in una recente lettera le hanno scritto: «Mi raccomando, cara Sr Emma, di riguardarti e sappi che tutti noi abbiamo bisogno di te, del tuo sostegno, perché tu sei per gli ultimi la speranza che rende leggero il nostro cuore». La volontaria racconta nel libro tutta la drammaticità del carcere al tempo del covid, spiegando nei dettagli una sofferenza che non accenna a diminuire: «Proviamo a immaginare cosa significhi sentir dire che questo coronavirus potrebbe diventare mortale e non avere nessuno che li conforti, li rassicuri; cosa significhi sentirsi cancellati i colloqui fisici e privati, persino i pacchi provenienti dalle loro famiglie; avere una vita povera di relazioni e vedere sparire tutti i volontari, di colpo non più autorizzati a entrare in carcere, e le già poche possibilità di formazione, e improvvisamente dover riempire le giornate con il nulla e la paura», racconta la religiosa.

La prefazione del volume è affidata al cardinale Giuseppe Petrocchi, arcivescovo di L’Aquila, che più volte ha visitato l’istituto romano e ha conosciuto i protagonisti di questa bella iniziativa: «Le pagine del testo sono come corridoi narrativi — scrive il porporato — che, se seguiti, immettono in “ambienti comunicativi” che non sarebbero stati altrimenti raggiungibili. In questi spazi dialogici troviamo esposte storie ed esperienze che vale la pena di esplorare con attenzione e rispetto. I detenuti si raccontano con franchezza disarmata. I brani da loro composti sono aree popolate da ricordi e da considerazioni, che sembrano distillate attraverso un lungo e spesso penoso itinerario autocritico: si coglie, sotto ogni riga, una sofferenza pervasiva che, in alcuni casi, raggiunge indici di drammaticità». Secondo Petrocchi, il tono confidenziale con cui gli autori si rivelano rappresenta un attestato di fiducia verso il pubblico che li legge, ma, al tempo stesso, anche un rischio di fraintendimenti, se quanti ricevono i loro diari di vita adottassero un approccio superficiale e prevenuto: «Di qui la responsabilità di accostarsi a questi scritti con atteggiamento vigilante e inclusivo». La prefazione dell’arcivescovo di L’Aquila ha un titolo eloquente, Sapere, per amare. Amare, per sapere, perché, spiega, «si deve varcare il confine dell’indifferenza e dell’estraneità, così come è fondamentale lasciarsi alle spalle la soglia del sospetto e delle interpretazioni distorsive. Bisogna, inoltre, attivare una disponibilità incondizionata alla verità, motivando evangelicamente la vicinanza partecipe: questo deposito di esperienze, infatti, merita di essere avvicinato con lo sguardo samaritano. Per capire — continua il porporato — occorre sapere, e per sapere, in modo autentico, è importante mobilitare sia la mente che il cuore. Conoscere, specie quando si tratta di visitare il mondo interiore di altri, non è un’impresa solo intellettuale, poiché se manca la luce dell’amore, gli occhi della ragione restano al buio».

Parlando del risultato e della proposta editoriale di suor Emma Zordan, il cardinale sottolinea che «chi legge le pagine di questo libro, con intelligenza altruista e leale empatia, si trova di fronte a sorprese positive e stimolanti. Emergono voci che chiedono solo di essere ascoltate». Petrocchi invita alla lettura di queste pagine perché «ci aiutano a maturare la convinzione che è meglio porgere una mano amica (capace di offrire un aiuto adeguato) verso chi ha sbagliato, piuttosto che limitarsi a puntare il dito contro». Seguendo la circolarità relazionale, che contraddistingue la logica evangelica, occorre «sapere per poter amare, ma è solo amando che si impara a capire. Spalancando le porte dell’anima alla Sapienza, che è sempre animata dalla carità, riusciremo gradualmente ad arrivare alla Verità tutta intera». Infine un appello: «Non lasciamo che, pure per le nostre omissioni, l’universo-carceri resti avvolto dalle nebbie di giudizi sommari e inquinati da un ostinato rifiuto». Un appello che suor Emma ha accolto fin da quando per la prima volta ha varcato la soglia della casa di reclusione e, da allora, contribuisce, attraverso pubblicazioni come queste, a migliorare la qualità dei servizi, portando un significativo supporto ai detenuti, ascoltando i loro problemi e dando sostegno morale e psicologico. Una piccola rivoluzione culturale sul concetto di detenzione, finalizzata al perseguimento degli obiettivi di rieducazione e reinserimento contenuti anche nella nostra Costituzione e, in tal senso, la sua attività costituisce un concreto punto di riferimento per la buona riuscita dei progetti virtuosi. Anche se sembra poca cosa, il coinvolgimento di persone che hanno rotto il patto sociale serve a molto. Serve a seminare risultati, lavorando sulla prevenzione piuttosto che sulla repressione, che saranno raccolti magari tra cinque o dieci anni. E questo, rievocando il titolo del libro, non tutti lo sanno.

di Davide Dionisi