CHE MONDO CORRE
In tempo di pandemia

L’insospettabile resilienza
delle persone
con disagio psichico

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30 marzo 2021

«Di solito sto benissimo da solo e invece, ora che siamo in zona rossa, ho voglia di vedere gente: sono proprio fatto al contrario». Antonio confida il suo desiderio impossibile con un sorriso a mezza bocca. Per capirne fino in fondo l’ironia, va detto che il tradizionale isolamento di Antonio è figlio anche di una grave patologia psichiatrica che, come tutti i disturbi della mente, impatta in modo pesante sulle relazioni sociali.

È da tempo che gli esperti cercano di accendere un faro sull’aumento dei problemi di salute mentale causati dalla pandemia, ma si è raccontato ben poco di come l’hanno vissuta e la stanno vivendo le persone che erano già affette da patologie di questo tipo. Non è strano: i “matti” sono da sempre i più invisibili tra gli invisibili. La definizione stessa è associata a uno stigma impastato nella mancata conoscenza. Le migrazioni e la globalizzazione ci hanno mescolato alimentando intolleranze ma anche sfatando miti e pregiudizi su popolazioni lontane. Le persone con disturbi psichici invece, pur essendo tra di noi, sono ancora immerse in un alone di mistero, guardate con la lente distorta di vecchie nozioni da romanzo d’appendice, come se considerassimo un cannibale chi viene dall’Africa.

Eppure proprio gli effetti collaterali della pandemia ci stanno insegnando che il disagio psichico è una patologia come le altre che, semplicemente, può capitare a chiunque, come ogni malattia. La Società italiana di neuropsicofarmacologia (Sinpf) suggerisce il termine “sindemia” che indica l’epidemia sinergica di più patologie, anche di tipo sociale, un fenomeno che infetta il corpo e anche la mente. «Metà delle persone contagiate — stimano dalla Sinpf — manifesta disturbi psichiatrici con un’incidenza del 42% di ansia o insonnia, del 28% di disturbo post-traumatico da stress e del 20% di disturbo ossessivo-compulsivo; inoltre il 32% di chi è venuto in contatto col virus sviluppa sintomi depressivi, un’incidenza fino a cinque volte più alta rispetto alla popolazione generale».

Un enorme aggravio di lavoro in arrivo per i Dipartimenti di salute mentale, rimasti tra i pochi ad avere presidi di medicina territoriale, sebbene fortemente impoveriti negli anni, e ora sottoposti allo stesso tipo di stress e difficoltà di ogni attività che richiede contatto tra persone, soprattutto nella prima fase dell’emergenza coronavirus. La Società italiana di psichiatria ha stimato che nei primi mesi del contagio, in Italia il 20% dei centri che forniscono servizi di supporto a persone con disagio psichico hanno chiuso e il 25% ha ridotto l’orario. «All’inizio — racconta Antonio Maone, psichiatra della Asl Roma 1 — mancava tutto, anche guanti e mascherine, come in ogni struttura sanitaria, e in una nostra Comunità abbiamo scoperto subito una persona contagiata, l’11 marzo del 2020. Ci siamo dovuti attrezzare per isolarla e alla fine nessuno è stato contagiato». «Pian piano i servizi si sono adattati — dice Claudio Mencacci, presidente della Sinpf e direttore del dipartimento di Neuroscienze dell’ospedale Sacco-Fatebenefratelli di Milano — e anche noi abbiamo attivato servizi on line, la nostra “Dad”, che ha aiutato a continuare a tenerci in contatto costante con i pazienti».

La vera sorpresa, specie nella prima fase della pandemia, è stata la capacità di reazione delle persone con disagio psichico assistite dai servizi. «È emersa una insospettabile resilienza — racconta Maone — la nostra è una Comunità aperta ed eravamo molto preoccupati dell’impatto delle restrizioni, visto che siamo coinvolti nel lockdown. E invece gli ospiti della Comunità si sono organizzati, anche loro hanno partecipato alla fase della coesione sociale esponendo i classici cartelli “andrà tutto bene”, hanno organizzato attività per tenersi impegnati, si sono messi a cucinare. Il temuto impatto sull’aggravamento delle patologie è stato in realtà modesto e selettivo».

Anche tra i pazienti in carico ai servizi, ma che vivono a casa propria, l’impatto è stato inizialmente meno sconvolgente di quanto si temesse. «Da metà ottobre, con l’arrivo della seconda ondata — rievoca Mencacci — è subentrata, come per tutti, una certa fatica. L’effetto per le persone con disagio psichico è stato un aumento dell’isolamento». Un fenomeno su cui intervengono anche fattori sociali. «Tutti noi — spiega il dirigente dell’ospedale milanese — ci siamo riorganizzati la vita con il supporto di servizi on line: basta pensare al gesto ormai comune di fare shopping on line o videochiamate. Ma a molte persone con disagio psichico mancano gli strumenti, sia in termini di alfabetizzazione digitale che, spesso, di attrezzatura informatica anche solo per acquistare farmaci on line, ad esempio. La povertà — conclude Mencacci — rende più soli e isolati. E credo che questo sia il grande tema di riflessione per i servizi di salute mentale che la pandemia ci spinge ad affrontare».

Secondo Maone, in compenso, l’eccezionalità della situazione, la rottura della routine, il ridimensionamento della differenza di ruoli tra operatori e pazienti, a fronte di un evento che spiazzava entrambi, ha dato la possibilità ai pazienti di tirar fuori risorse che normalmente rimangono nascoste. «Spesso l’istituzione in cui queste persone sono inserite — spiega lo psichiatra — dà per scontato che queste risorse siano scarse e nella persona si crea, prima ancora di quello esterno, uno stigma interno: si convincono di non potercela fare da soli, si struttura un abbassamento delle aspettative. Vediamo un fenomeno simile quando qualcuno esce dalla comunità per inserirsi in progetti di vita indipendente: spesso emergono risorse che nessuno avrebbe immaginato».

di Giuseppe Marino