Nuova traduzione dell’«Oracolo» di Baltasar Gracián

Tutto il sapere
in trecento aforismi

 Tutto il sapere in trecento aforismi   QUO-071
29 marzo 2021

Guy Debord, guru sessantottino e padre del situazionismo, organizzò il contenuto del suo scritto maggiore, La Società dello Spettacolo, sul modello dell’opera pubblicata nel 1647 sotto il trasparente pseudonimo di Lorenzo Gracián da un gesuita spagnolo, Baltasar Gracián: Oracolo manuale e Arte della Prudenza. Marc Fumaroli, lo studioso scomparso di recente che ha fatto rivivere nell’Università francese la cattedra di retorica, lo sostiene in un corposo saggio che accompagna una nuova traduzione dell’Oracolo da poco uscita per i tipi di Adelphi (Milano, 2020, pagine 363, euro 22; traduzione e note a cura di Giulia Poggi).

Lo scritto di Gracián si compone di trecento aforismi nei quali è condensato il sapere necessario a muoversi con eleganza, tatto e successo nella complessa società seicentesca, condizionata da rituali precisi, forte gerarchia e grande formalismo. Fumaroli racconta la storia del testo, concentrandosi sulla prima traduzione in francese, realizzata nel 1684 da Amelot de La Houissaie, con il titolo rinnovato di L’homme de cour, nel quale si sente l’eco del Cortegiano di Baldasserre Castiglione, concentrato di sapere e di propositiva inventiva del rinascimento italiano in tema di comportamento e buone maniere.

I tempi nei quali viene scritto l’Oracolo, ossia il consiglio, la cui brevità ne consente la disponibilità continua, a costante portata di mano, e perciò manuale, sono molto cambiati da quelli della corte urbinate di Elisabetta Gonzaga, che ispirò il Corteggiano. Anche gli spazi non sono più quelli contenuti dell’hortus conclusus. Il tentativo di unificazione imperiale dell’Europa tentato da Carlo v , e fallito, ha permesso comunque nascita e sviluppo del Siglo de Oro, il periodo dell’egemonia castigliana sul continente, della quale la guerra dei Trent’anni (1618-1648), segnata dalla durissima sconfitta di Rocroi, nel 1643, segna la conclusione politica.

Gracián scrive mentre ancora in Vesfalia si discutono i termini della futura pace, non accettata né dal Pontefice Innocenzo x né dal governo di Madrid, che prosegue nella guerra contro la Francia, ormai conflitto intestino tra cattolici, fino al 1659, quando viene stipulata la pace dei Pirenei, mesta conclusione del regno di Filippo iv , aperto con grandi ambizioni e destinato invece a riconoscere la nuova egemonia parigina sul continente. La fine della storia non è dunque nota all’autore dell’Oracolo, ed è bene che sia così.

Il testo non è segnato dal rimpianto per un’epoca passata, presenta un’antropologia positiva, riconosce il peccato originale come uno dei caratteri dell’uomo, ma non lo ritiene dominante. È capace di affidarsi alla grazia di Dio, rimanendo scevro dalle cupezze che si vanno addensando in alcune regioni del nord Europa.

Elemento caratteristico nella serie di trecento ammonimenti offerti al lettore nell’Oracolo è la consapevolezza della complessità del mondo e della necessità di adattarsi alle sue leggi, accompagnata però da un senso morale rigoroso, fondato sulla certezza che anche in ambienti dominati dalla competizione, dal sospetto reciproco e persino dal rancore nei confronti di chi ottiene il successo per mezzo dei propri meriti, rimanga lo spazio sufficiente per una vita degna e ben spesa, con soddisfazione, senza rimpianti né recriminazioni.

L’itinerario di Gracián si apre nel primo aforisma con il riconoscimento delle difficoltà del presente. «Si richiedono più cose oggi per un saggio che anticamente per sette», e si sviluppa fino a concludersi nel trecentesimo, intitolato In una parola, santo, con l’ammonizione «La virtù è catena di tutte le perfezioni, centro di ogni felicità: Essa rende un individuo saggio, attento, sagace, accorto, coraggioso, dignitoso, integro, felice, acclamato e riconosciuto eroe». E poi «La virtù è una cosa seria, tutto il resto è burla».

L’aforisma tratto dall’Oracolo manuale di Baltasar Gracián posto da Guy Debord a esergo del vi capitolo de La Società dello Spettacolo è «Di nostro non abbiamo che il tempo, nel quale vive chi non ha neppure dimora».

di Sergio Valzania