Sul desiderio

Ritrovare il desiderio di Dio

Macha Chmakoff «Verso la Gerusalemme celeste»
29 marzo 2021

Il desiderio è un sentire dinamico, imprevedibile, sorprendente, capace di orientarsi nell’alto dell’ideale, nel basso del degrado morale, nell’avanti della volontà di futuro, nell’intorno dell’estroversione solidaristica e caritativa, nell’indietro della nostalgia e del retrò, nell’Oltre e nell’Altrove intuendo e cercando vertici e orizzonti di Trascendenza, di là del tempo e del mondo, che ben si può chiamare Cielo. Il desiderio nell’uomo non è, perciò, un problema (il bisogno lo è), ma è tanto altro e, alla fine, è un grande mistero. Si pensa solo illusoriamente di soddisfarlo, perché la soddisfazione dura assai poco.

Il desiderio rifiorisce subito, si ripresenta in modo inatteso, insegnando in modo velato che la fonte del desiderio coincide con la risposta ad esso. Il desiderio non si accontenta di futuri brevi, ma di futuri lunghi e, osiamo credere, di futuro ultimo. Probabilmente, nel nostro tempo, si deve alla caduta dell’uomo contemporaneo nelle forre del presentismo l’opacizzarsi dell’homo desiderans che, di per sé, è un produttore di futuro. Perciò, l’enfasi sul presente, in fondo, contraddice il desiderio e c’è di che preoccuparsi per questo (cfr. Marc Augé, Che fine ha fatto il futuro? Dai non-luoghi ai non-tempo, Milano, Eleuthera, 2009).

L’uomo è un essere di desiderio


L’uomo è un essere di desiderio e di superamento del suo stesso desiderio. L’uomo desiderante (homo desiderans) si qualifica come uomo proiettato al futuro con l’attesa, con il cuore che aspetta qualcosa che s’intuisce essere buono, bello e vero. Quello che è una dimensione stabile ed essenziale dell’uomo, il desiderare, nella società odierna è diventata una qualificazione difficile da accettare e da realizzare: la società consumistica, infatti, uccide il desiderio perché annulla l’attesa del consumatore (homo consumans): quest’ultimo, però, tende a sostituire l’uomo desiderante, ma senza mai riuscirvi appieno.

Paolo vi una volta affermò che l’uomo moderno soprattutto, è costretto a dichiararsi povero, «un povero dai desideri esasperati, illusi o delusi» (Discorso all’udienza del 13 dicembre 1972).

Il desiderio, la parola che unisce Dio e Cielo


Il desiderio d’incontrare e di ammirare Dio percorre l’intera storia della salvezza; esso è il filo d’oro che collega le innumerevoli esperienze di santi, di mistici, di credenti, a cominciare dal pio ebreo e dal cristiano della prima ora: «Ti cerco, Signore, per contemplare la tua gloria» (Sal 63, 3); «Il desiderio del mio cuore sale a Dio» (Rm 10, 1). A rivelazione compiuta, dopo la celebrazione da parte del Padre di tutti i misteri di Cristo, l’ultimo dei quali è l’Ascensione che ha aperto il Cielo alla famiglia degli uomini, dobbiamo dire che quel desiderio è la visio Dei, che è uno dei nomi del Cielo.

L’uomo, come essere di desiderio, è un soggetto vitale e creativo: elabora sogni, coltiva utopie, idea progetti e si propone di realizzarli. L’uomo è costituito dal desiderio di Dio. La coscienza cristiana ne è consapevole grazie alla rivelazione e all’esperienza. Questo desiderio è la firma del Creatore sulla natura umana, il principio della grandezza di questa creatura rispetto a tutte le altre. Così, nelle emigrazioni e immigrazioni delle parole da un dizionario all’altro, tra i vari saperi, registriamo nuovi arrivi (si tratta però di riscoperte e di ritorni) anche nei riservati spazi del dizionario teologico: fra questi, c’è la parola desiderio qualificata nel modo più alto: come desiderio di Dio.

Sulla magica ardita espressione (desiderio di Dio) hanno molto riflettuto i padri della Chiesa e soprattutto sant’Agostino: egli la tratta con perspicacia teologica, ma anche ha anche orientato la sua esistenza in apertura escatologica, equiparando il desiderare Dio con il desiderare il Cielo. La riflessione teologica sul desiderio di questo santo genio cristiano ha saputo creare, infine, il convincimento credente che desiderando Dio si desidera il Cielo (cfr. Remo Piccolomini, Desiderio di Dio e senso della vita. Agostino d’Ippona, Roma, Città Nuova, 2011); Adolfo Scandurra, Agostino di Ippona. Il desiderio di Dio, Padova, Messaggero, 2009).

Tale profondo desiderio congiunto, di Dio e del Cielo, è divenuto il motore, poi, di un’appassionata ricerca dell’intera verità cristiana e, in particolare, di quella sulle realtà ultime, specie all’interno dell’esperienza monastica, divenendo una riserva aurea, alla quale farebbe bene ad attingere l’esperienza cristiana del nostro tempo che, in diversi “servizi della Parola”, registra la quasi scomparsa di questo tema centrale: il desiderio di Dio e del Regno futuro (cfr. Jean Leclercq, Cultura umanistica e desiderio di Dio. Studio sulla letteratura monastica del Medioevo, Firenze, Sansoni, 2002; Fabio Giardini, Il desiderio del cielo nella vita cristiana, Angelicum University Press, Roma 2003).

L’uomo desiderante ha “vuoti a forma di Dio”


Occorre svuotarsi di tutto per riempirsi di Dio. La nostra disgrazia è che noi cristiani non ci stupiamo più. È assai strano quello che ci accade: o disconosciamo e dimentichiamo Dio, oppure prendiamo tanta confidenza col suo nome e con i racconti dei suoi atti salvifici da non provarne più meraviglia. L’uomo ragiona, argomenta, discute, dimostra, ma questa non è l’unica strada per andare a Dio. Il desiderio di Dio e del suo Cielo è nell’ordine dello stupore e della meraviglia, che non sono né nuove logiche per conoscere, né grammatiche né sintassi per comunicare, piuttosto degli atteggiamenti interiori, lievitati dalla fede, che permettono nuovi modi di conoscere e di comunicare.

È su quest’onda spirituale che può essere accettata la doppia richiesta cristiana di svuotarsi e di lasciarsi riempire da Dio, che si presenta nei termini del radicalismo più inflessibile, come appare dal parlare di sant’Agostino: «A Dio che ti dice: chiedi ciò che vuoi, cosa chiederai? […] Chiedi ciò che vuoi; e tuttavia non troverai niente di più pregevole, niente di migliore di Quello stesso che tutto ha creato. Chiedi Colui che tutto ha fatto, ed in Lui e da Lui avrai tutto ciò che ha creato» (Esposizioni sui Salmi, 34, i , 12). Il rigorismo si fa ancora più stringente con Gregorio di Nissa quando afferma che la condizione previa della testimonianza e della sequela è necessaria ottenere la visione celestiale di Dio; cosicché «colui che desidera vedere Dio vede colui che desidera solo se lo segue sempre, e la contemplazione del suo volto consiste nel procedere incessantemente incontro a Dio, e questo procedere giunge a buon fine solo se si segue il Lògos standogli dietro» (Omelie sul Cantico dei Cantici, Omelia 12). Desiderare le cose create produce il disincontro, mentre desiderando Dio si crea l’incontro che acquieta e salva. Perciò solo Dio vale desiderare davvero. «La chiameremo impropriamente oro, la chiameremo vino.

I “vuoti a forma di Dio” può colmarli solo Dio


La verità di un uomo, alla fine, non è intercambiabile con quella di altri suoi simili. Da qui la sua solitudine insondabile e ineliminabile perché nessuno, all’interno della lunga lista delle creature, è in grado di colmare i suoi vuoti, se non chi gli è più intimo di se stesso, avendolo posto al mondo con una creazione continua, gestendo il segreto di lui nel solo modo vero, quello di realizzare fino in fondo la sua salvezza e questi è Dio. Pertanto, tutti gli uomini (è un plurale che non distrugge la singolarità) portano inscritto sull’anima il desiderio per un Oltre e un Altrove di là di loro stessi: è Dio creatore e provvidente che ha immesso «l’eternità nei loro cuori» (Qo 3, 11). Questo è un fine eterno che lievita il cuore di ogni uomo rendendolo inquieto finché non riposi in lui (cfr. Sant’Agostino, Confessioni, i , 1).

L’impossibilità di calmare da solo le fibrillazioni del suo cuore e di riempirlo in modo adeguato e permanente con le sue stesse mani è causa di sofferenza per l’uomo che tiene il suo cuore agitato e burrascoso nella contraddizione con i suoi desideri più vasti e profondi, provvedendo a esso con materiali di scarto e inidoneo. A ciò s’aggiunge il fatto che il cuore è di per sé, fonte di inganni per l’uomo che lo porta in petto: «Il cuore è ingannevole più di ogni altra cosa, e insanabilmente maligno; chi potrà conoscerlo?» (Ger 17, 9). Fra l’altro, l’uomo combina infelicemente due cose nella cura e nel governo dei suoi desideri: a un lato, se non fa esperienza religiosa, non conosce i doni con i quali Dio può guarire e riempire il suo cuore, dall’altro è facilmente attratto da cose che non sanno di Dio e gli fanno male (cfr. Rm 1, 18-22).

Una chiave a brugola esagonale non può servire per entrare in una serratura con buco rotondo e usarlo di conseguenza. Così, nessuno di noi può usare una chiave il gambo e la mappa inidonei per la toppa di una “serratura” di scrigni o custodie o madie dove sono i beni necessari a riempire i grandi vuoti della sua vita: questi sono i “vuoti a forma di Dio”. Ebbene solo Dio è in grado di aprire il sigillo della verità dell’uomo: solo lui ne possiede la “‘chiave” adatta ed è capace di girarla. Aprendola, egli vi trova i beni che egli vi aveva posti e con essi sedare la fame e la sete di felicità dell’uomo e, così, riequilibrare il «guazzabuglio» del suo «cuore» (Manzoni). Peraltro, anche in un’ottica solo umana, appare chiaro che è assai difficile conoscere, comporre e ricomporre da sé soli l’ordine del cuore umano (cfr. Roberta De Monticelli, L’ordine del cuore. Etica e teoria del sentire, Garzanti, Milano 2008).

Ci serve Dio, che mai dobbiamo dimenticare di parlarne, di pregarlo, di desiderarlo, di amarlo, di testimoniarlo.

di Michele Giulio Masciarelli