#QuarantaGiorni
Tracce di riflessione lungo il cammino quaresimale

Esame di coscienza

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29 marzo 2021

Una delle pratiche penitenziali più diffuse in quaresima, oltre al digiuno e alla Via Crucis, è l’esame di coscienza: facciamo alcuni buoni propositi, ci prefiggiamo piccole mortificazioni — i cosiddetti “fioretti” — poi, a sera, cerchiamo di verificare se e quanto quei propositi siano stati rispettati. A volte gli esami di coscienza sono dettagliati, scrupolosi, analitici: verifichiamo quante volte siamo caduti in tale mancanza, con quale frequenza si è manifestata una nostra imperfezione o abitudine negativa, e così via.

Certamente questa pratica è lodevole e preziosa per il progresso spirituale, soprattutto in giovane età, quando certe intemperanze sono più frequenti e occorre imbrigliare le tendenze incontrollate. Ma c’è anche un esame di coscienza di più ampio respiro. Non meno impegnativo, ma di stile diverso. Un esame di coscienza con meno “contabilità” e più “responsabilità”. Un esame di coscienza che sarebbe bene fare ogni sera, e non soltanto in quaresima. Un esame semplice e implacabile, che si riduce ad una sola domanda: «Chi sono io, davvero?».

I saggi di Israele insegnavano che nel mondo futuro non ci sarà chiesto “perché non sei stato Mosè?”, ma piuttosto “perché non sei stato te stesso?”. È un grande insegnamento, valido per tutti i credenti, e forse per ogni essere umano. Il cammino spirituale non consiste nel raggiungere una perfezione morale astratta, basata su standard predefiniti o modelli universali, ma nel raggiungere la verità di sé stessi. L’esame di coscienza di cui parlo chiede soltanto, ma con insistenza: chi sono io, in verità? Chi sono io, davanti a Dio, nella nudità di me stesso? Le azioni che ho compiuto oggi corrispondono a questa verità di me stesso? Ho compiuto gesti autentici, veri, che esprimono la mia identità profonda? Oppure ho fatto cose che mi hanno allontanato da me stesso, da ciò che sono chiamato ad essere? Le azioni che ho compiuto hanno fatto maturare la mia persona, portando frutti che corrispondono alla verità di me stesso davanti a Dio, o contraddicevano la mia identità concreta: di padre/madre, o di marito/moglie, o di persona consacrata, o di lavoratore, o di studente…? Al termine di questa giornata il mio agire ha reso ragione di chi sono chiamato ad essere, della mia vocazione unica e profonda? Mi ha definito per quello che sono? Oppure mi ha alienato dalla mia identità autentica? Ha forse assecondato la parte fasulla di me, quella che non esprime il “nome nuovo” che Dio mi ha donato con il battesimo e che io solo posso conoscere (cfr. Ap 2, 17)?

Il peccato è sempre un “vivere nella contraddizione”. Perciò ogni peccato è una menzogna: è un disconoscere che siamo figli di Dio, un appropriarsi di gesti che non ci appartengono, indossare un abito che non ci sta bene, recitare una parte non nostra, far finta di essere ciò che non siamo. È un mettere in opera comportamenti che non si confanno alla mia persona. È fuga dalla realtà e dalla verità.

Lo Spirito di Verità, invece, ci spinge a far fiorire noi stessi, rispettando la nostra identità autentica e aderendo di cuore alla realtà. Solo quando siamo in armonia con il nostro “io” autentico — quando siamo noi stessi, così come Dio ci vede — possiamo produrre i frutti maturi e profumati della carità. Questo esame di coscienza non è sforzo volontaristico di perfezionamento morale, ma discernimento spirituale, scoperta della perla preziosa, apertura all’azione del Paraclito che ci modella secondo il progetto del Padre, preghiera che invoca la grazia di Cristo e che dispone a far sì che la sua grazia in noi non sia vana.

di Filippo Morlacchi