Sull’originalità di un metodo logico-cognitivo

Una dimensione teologica
che non rinnega l’estetica

Rielaborazione del pittore Nemesio Svampa del logo delle Lecturae Dantis alla Lumsa
27 marzo 2021

«Io, che cercava di consolarme, trovai non solamente a le mie lagrime rimedio, ma vocabuli d’autori e di scienze e di libri: li quali considerando, giudicava bene che la filosofia (…) fosse somma cosa. E imaginava lei fatta come una donna gentile (…). E da questo imaginare cominciai ad andare là dov’ella si dimostrava veracemente, cioè ne le scuole de li religiosi e a le disputazioni de li filosofanti» ( cv , xii , 5-7).

Le parole di un giovane poeta che ha perso la donna amata e che cerca conforto nei libri e nella fede ci introducono al tema centrale della sua opera: la dimensione teologica e/o teleologica, dimensione totalizzante e non solo filo rosso dei ben noti canti dottrinali del Paradiso.

Fin dalle prime battute della Vita nova ( i , 5), Amore, lo «spirito della vita», dice al Poeta Ecce deus fortior me, qui veniens dominabitur michi , che riecheggiano Luca, iii , 16 e Isaia, xl , 10. Beatrice, fin da subito, incarna l’interesse di Dante per la vita eterna e il soprannaturale, ma tutto questo avviene in una prospettiva conoscitiva in progressivo ampliamento e in progressiva costruzione, un progetto complessivo, impostato sul rapporto ragione (filosofia) — fede (teologia), che si concluderà col trionfo di quest’ultima. Eppure, nell’avvìo dell’Inferno, il «cammino» di Dante smarrito, non è ancora Itinerarium mentis in Deum, anche se comincia proprio con l’intervento di Beatrice. Il presentimento è nella canzone Quantunque volte, lasso! Mi rimembra, ( vn , xxii , 5) in cui la dimensione estetica, il piacere della bellezza, trasmutano in visione teologica: «Perché ‘l piacere della sua bieltate, / partendo sé da la nostra veduta, / divenne spirital bellezza grande, / che per lo cielo spande / luce d’amor, che li angeli saluta», ma anche nella complessa costruzione numerologica, in cui la morte e la vita della «gentilissima» rimandano al numero nove, multiplo del tre, segno della Trinità: «Dunque se lo tre è fattore per sé medesimo del nove, e lo fattore per sé medesimo de li miracoli è tre, cioè Padre e Figlio e Spirito Santo, li quali sono tre e uno, questa donna fue accompagnata da questo numero del nove a dare ad intendere ch’ella era uno nove, cioè uno miracolo, la cui radice, cioè del miracolo, è solamente la mirabile Trinitade» ( vn , xix , 6).

Nei trenta mesi (1292-1295), passati nelle scuole teologico-filosofiche di Firenze (gli studia dei domenicani a Santa Maria Novella, dei Francescani a Santa Croce e la scuola degli agostiniani a Santo Spirito) fiorisce il pensiero teologico di Dante, che mai rinnegherà la sua genesi precisamente estetica. Lo dimostra un brano del Convivio, in cui Dante distingue nettamente tra l’allegoria dei teologi e l’allegoria dei poeti: «Le scritture si possono intendere e deonsi esponere massimamente per quattro sensi. L’uno si chiama litterale (…). L’altro si chiama allegorico e questo è quello che si nasconde sotto ‘l manto di queste favole ed è una veritade ascosa sotto bella menzogna. (…)Veramente li teologi questo senso prendono altrimenti che li poeti; ma però che mia intenzione è qui lo modo de li poeti seguitare, prendo lo senso allegorico, secondo che per li poeti è usato» (cv , ii , i , 2-4).

Rivendicare l’originalità dei poeti, e di se stesso, nell’uso dell’allegoria, equivale a rivendicare l’originalità di un metodo logico-cognitivo che deriva direttamente da Aristotele, metodo mai più abbandonato da Dante, nella Commedia e nel Monarchia. Dal confronto e talvolta scontro delle fonti sacre (Bibbia, Girolamo, Tommaso, Agostino) con quelle “profane” (classici latini, Averroè, sillogi ed enciclopedie medievali) si genera un habitus morale, ma anche conoscitivo, antidogmatico, estremamente moderno, perché, tra l’altro, dà spazio al dubbio cognitivo: «Io veggio ben che già mai non si sazia / nostro intelletto, se ‘l ver non lo illustra / di fuor dal qual nessun vero si spazia. /Posasi in esso come fera in lustra, / tosto che giunto l’ha; e giugner puollo / se non, ciascun disio sarebbe frustra. / Nasce per quello, a guisa di rampollo, / a piè del vero il dubbio, ed è natura / ch’al sommo pinge noi di collo in collo. ( pd , iv , 124-132). Se in Tommaso filosofia e teologia sono tutt’uno, Dante le distingue rivendicando alla filosofia il compito di guidare gli uomini verso la felicità terrena, a cui si arriva per phylosophica documenta […] dummodo illa sequamur secundum virtutes morales et intellectuales operando, quindi si accede alla teologia, il cui fine è la felicità celeste, raggiunta per documenta spiritualia que humanam rationem trascendunt, dummodo illa sequamur secundum virtutes theologicas operando, fidem scilicet, spem et caritatem. (Monarchia, iii , xvi , 8,). In codesta dinamica si colloca la «dimensione estetica», la «forma» della Commedia, che non è la serva della «dimensione cognitivo-teologica», ma di essa è parte integrante. Per spiegare codesto assunto non sembri azzardato avvicinare Dante ad Immanuel Kant, considerando la contiguità dei rispettivi razionalismi. Nella Critica del Giudizio Kant afferma che la conoscenza effettiva non può prodursi senza l’intervento di quel principio non intellettuale che è l’asthetik stimmung («stato d’animo estetico»), che non è altro che lo stesso uso regolativo della ragione, visto sotto il profilo delle condizioni soggettive del conoscere. Pertanto ci chiediamo: tale combinazione di immaginazione e intelletto potrebbe essere il luogo in cui si manifesta quel principio teologico della conoscenza che sembra rappresentare in toto l’identità di Dante nei famosi versi criptici «Ed io a lui “I’ mi son un che, quando / Amor mi spira, noto, e a quel modo ch’e’ ditta dentro vo significando”» (Purgatorio, xxiv , 52-54).

Forse potrebbe esserlo. L’esperienza estetico-cognitiva permette a Dante di affermare la sua originalità nei confronti di Tommaso d’Aquino, per il quale il teologo usa la ragione fin dove è possibile, per giustificare razionalmente i dati della fede, per Dante, invece, la ragione non fa parte della teologia che riguarda l’insegnamento di Cristo, accolto solo per fede. La grazia divina permette alla mente umana di comprendere le cose rivelate da Dio, durante la vita terrena, così come permetterà di cogliere l’essentia Dei nella vita eterna. Prova di codesto assioma è l’impianto teologico dell’intera Commedia e, in particolare, del Paradiso, di cui scegliamo due luoghi-simbolo: il “quadrilatero teologico” dei canti x - xii e l’esame sulle virtù teologali, in particolare la fede (c. xxiv ). Il quadrilatero mistico-teologico presenta ai suoi angoli: Tommaso (che elogia) Francesco e Bonaventura (che elogia) Domenico. Dalla parte di Tommaso c’è l’ordine domenicano, referente filosofico-teologico, e dalla parte di Bonventura c’è l’ordine francescano, referente mistico-ascetico. Dentro il quadrilatero trovano posto sia la prima schiera degli undici spiriti sapienti, nominati da Tommaso, ma anche la seconda schiera degli altri undici, nominati da Bonaventura. La simmetria perfetta di una tale costruzione, che lega la sapienza umana alla sapienza divina, lascia chiaramente intendere che per Dante l’apice della santità è costituito dai due “principi”, ai quali Dio ha affidato la salvezza non solo della Chiesa presente ma anche di quella futura, attraverso una mirabile armonia e correlazione tra la paupertas evangelica e la ratio evangelica, tra la Carità e la Fede. Simmetricamente Tommaso e Bonaventura indicano a Dante le due schiere di santi e saggi che precedono, nel canto x , e seguono, nel canto xii , gli elogi di Francesco e Domenico. In particolare, i saggi indicati a Dante dall’autore della Summa Theologiae ci permettono di individuare i punti cardinali della “teologia dantesca”: Alberto Magno, Francesco Graziano, Pietro Lombardo, re Salomone, Dionigi Aeropagita, Paolo Orosio, l’amatissimo Severino Boezio, Isidoro di Siviglia, Beda il venerabile, Riccardo da San Vittore e infine Sigieri di Brabante, condannato da Giovanni xxi perché «sillogizzò invidiosi veri» ( x , 138). Esponente dell’averroismo, a causa della dichiarata distinzione tra indagine filosofico-scientifica ed esegesi teologica della Verità rivelata, Sigieri subì la condanna di Giovanni xxi e l’opposizione sia dell’Aquinate, nell’opuscolo De unitate intellectusche di Bonaventura, nelle Collationes in exameron. Dante, provocatoriamente, lo definisce «luce etterna», ben sapendo la sua sorte: non aver voluto ritrattare le tesi che riconoscevano la superiorità della fede ma, al contempo, interpretavano i testi dei filosofi con i soli strumenti della ragione; un Galileo Galilei ante litteram, un alter ego dell’Alighieri davvero determinante per capire il nocciolo della sua “teologia”, fondata sul libero arbitrio: Sciendum quod principium primum nostrae libertatis est libertas arbitrii (Monarchia, i , xii , 2) e sul libero esercizio della volontà: «Lo maggior don che Dio per sua larghezza / fesse creando, e a la sua bontate / più conformato, e quel ch’e’più apprezza, / fu de la volontà la libertate». (Paradiso, v , 19-22), poiché «Color che ragionando andaro al fondo, / s’accorser d’esta innata libertate / però moralità lasciaro al mondo». (Purgatorio, xviii , 67-69). Codeste affermazioni non confliggono con gli esami sulle tre virtù teologali, anzi di quegli esami ne sono la conferma. Non casualmente il San Pietro di Dante è il protagonista del canto xxiv , in cui il Poeta «baccialiere», scolaro, seguendo il rigido schema della scolastica, si sottopone alle domande di prassi, e del canto xxvii , tutto costruito sull’invettiva e lo sdegno verso gli «usurpatori» del soglio papale. La risposta su che cosa sia la fede, deriva dalla Lettera di San Paolo agli Ebrei (11, 6): «fede è sustanza di cose sperate / e argomento de le non parventi; / e questa pare a me sua quiditate (…) E da questa credenza ci convene / silogizzar, sanz’avere altra vista: / però intenza d’argomento tene» (Paradiso, xxiv , 64-66 e 75-77). Nella conclusione della Commedia, Dante ci offre la soluzione teologica del rapporto ragione-fede. Nel Convivio aveva affermato che «la ragione può servire la fede col dimostrarne la credibilità ed è da intendersi come una conoscenza razionale superiore: ella [la ragione] è utile a tutte le genti, dicendo che l’aspetto suo aiuta la nostra fede, la quale più che tutte l’altre cose è utile a tutta l’umana generazione, si come quella per la quale campiamo da etternale morte e acquistiamo etternale vita» ( iii , vii , 15-17); nella Commedia Virgilio-ragione, su invito di Beatrice-fede, lo guida fino al Paradiso terrestre, proprio a indicare che la ragione è la via che conduce alla fede. Dalla «costanzia de la ragione» della Vita nova alla «sustanza di cose sperate» del Paradiso la scienza teologica, attraverso la poesia, diventa lo specchio della vita dell’anima: la varietà e la ricchezza della parola di Dante riflette la volontà dell’animo del Poeta, orientato verso l’intuizione più alta e trascendente della sua esistenza terrena.

di Gabriella M. Di Paola Dollorenzo