Centenario dantesco
Papa Francesco davanti all’autore della «Commedia»

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Dante raffigurato da Raffaello nella Stanza della Segnatura
27 marzo 2021

Nel Palazzo apostolico vaticano, la casa ove il Papa accoglie i suoi ospiti, s’affaccia una presenza che non sempre è notata. Nelle splendide Stanze di Raffaello, sulle cui pareti il celebre pittore di Urbino ha evocato scene sacre e profane mirabili, affiora per due volte un profilo segaligno e austero, ed è proprio quello di Dante Alighieri, col capo cinto di alloro. Siamo nella cosiddetta Stanza della Segnatura, la biblioteca privata di Papa Giulio ii che resse la Chiesa dal 1503 al 1513. Il pittore aveva voluto proporre i tre grandi universali del Vero, del Bene e del Bello e, in una mirabile sinfonia di figure, di scene, di colori, aveva introdotto anche il sommo Poeta.

Dante di casa in Vaticano


Infatti, nell’imponente rappresentazione denominata Disputa del SS. Sacramento (1509) — che in realtà è una celebrazione della Trinità, adorata dalla Chiesa celeste trionfante e da quella terrena militante — tra i grandi Padri della Chiesa, i Dottori e i Teologi, da Ambrogio ad Agostino, da Girolamo a Gregorio Magno, da Tommaso d’Aquino a Bonaventura, occhieggia anche Dante, considerato cultore del Vero trascendente e quindi teologo e credente fervido e inconcusso, come effettivamente era. Egli ritorna su un altro affresco della stessa Stanza, quello del Parnaso, il monte classico del Bello ove è assiso Apollo accompagnato da Omero e da Virgilio e, accanto a loro, si erge a figura intera ancora Dante, colui che attraverso la via pulchritudinis, la bellezza suprema della sua poesia, ha cantato la verità divina.

L’autore della Divina Commedia è, dunque, di casa nella Sede apostolica ed è giusto che Papa Francesco abbia voluto celebrare il settimo centenario della sua morte (1321) con una Lettera apostolica datandola proprio 25 marzo, solennità dell’Annunciazione della maternità di Maria: è, infatti, il giorno in cui simbolicamente prendeva avvio anche il viaggio del Poeta nella «selva oscura» e si sviluppava l’intera trama gloriosa di quel «poema sacro / al quale ha posto mano cielo e terra» (Paradiso xxv , 1-2). Merita, però, una nota specifica preliminare proprio il titolo scelto dal Pontefice per la sua Lettera Candor Lucis aeternae, “Splendore della Luce eterna”.

È noto che, come accade nella Bibbia, spesso Dio soprattutto nel Paradiso dantesco è alonato di «luce etterna»: si pensi che nell’ultimo canto, il celebre xxxiii , il termine «luce» risuona ben cinque volte (vv. 54.67.83.100.124). Una luce che si irradia e brilla anche sul volto umano, come accade per Beatrice che è cantata dal Poeta come «isplendor di viva luce etterna» (Purgatorio xxxi , 139). L’incipit del testo papale è, però, attinto a un passo del libro biblico della Sapienza nella versione latina di san Girolamo, ove la Sapienza divina è esaltata appunto come candor lucis aeternae (7, 26) e Dante cita quel passo nella sua opera teorica più alta e complessa, il Convivio traducendolo letteralmente: «candore de l’etterna luce» ( iii , 15, 5).

Entriamo, allora, in questo ampio e suggestivo testo celebrativo che Papa Francesco dedica a colui che un altro genio come Michelangelo, anch’egli ben presente nel Palazzo apostolico, definiva «simil uom né maggior non nacque mai». Il Pontefice inizia rievocando l’imponente attestazione di amore riservata a Dante dai suoi immediati predecessori, a partire dall’enciclica In praeclara summorum di Benedetto xv nel sesto centenario della morte del poeta (1921), soffermandosi in particolare su Paolo vi , autore anch’egli di una Lettera apostolica dantesca, l’Altissimi cantus (1965).

Nonostante la sincera severità del Poeta che aveva relegato nell’Inferno ( xix , 52-53) tra i simoniaci Bonifacio viii , Papa Montini non esitava a dichiarare: «Nostro è Dante! Nostro, vogliamo dire nella fede cattolica, nostro perché tutto spirante amore a Cristo e molto amò la Chiesa, di cui cantò le glorie, e nostro perché riconobbe e venerò nel Pontefice Romano il Vicario di Cristo». E continuava: «Non rincresce ricordare che la voce di Dante si alzò sferzante e severa contro più d’un Pontefice Romano, ed ebbe aspre rampogne per istituzioni ecclesiastiche e per persone che della Chiesa furono ministri e rappresentanti».

«Profeta di speranza e del desiderio di infinito»


Papa Francesco delinea una vera e propria mappa essenziale non solo dell’opera di Dante ma anche della sua tormentata esistenza, lontano dall’amata e detestata Firenze ove era sbocciata la sua vita anche di cristiano nel battistero, il «mio bel San Giovanni» (Inferno xix , 17). Un’esistenza trasformata «in un paradigma di ogni autentico viaggio in cui l’umanità è chiamata a lasciare quella che Dante definisce “l’aiuola che ci fa tanto feroci” (Paradiso xxii , 151) per giungere a una nuova condizione, segnata dall’armonia, dalla pace, dalla felicità». È per questo che egli può essere definito come «profeta di speranza e testimone del desiderio di infinito insito nel cuore dell’uomo», un pellegrino della storia che passa oltre le ingiustizie dei prepotenti, reggendo alta la fiaccola dell’«alto disìo».

Egli diventa, dunque, il «cantore del desiderio umano», proprio nel senso etimologico del termine che rimanda ai sidera, alle stelle, senza cedere alla tentazione della stanchezza e dello scoraggiamento, come lo ammonisce la sua guida Virgilio: «Ma tu perché ritorni a tanta noia / perché non sali il dilettoso monte / ch’è principio e cagion di tutta gioia?» (Inferno i , 76-78). In questo itinerario sono in azione due potenze efficaci: da un lato, la misericordia di Dio che stende la sua mano liberatrice, e dall’altro, la libertà umana che la afferra, così da essere sottratti al gorgo tenebroso del male.

È interessante notare che Papa Francesco riserva alla dialettica grazia-libertà un’intensa riflessione adottando come emblema lo scomunicato re Manfredi, figlio di Federico ii , che sulla soglia della morte, trafitto da due colpi di spada, confessa: «Io mi rendei, / piangendo, a quei che volentier perdona. / Orribil furon li peccati miei; ma la bontà infinità ha sí gran braccia, / che prende ciò che si rivolge a lei» (Purgatorio iii , 119-123). Facile è scorgere in filigrana a queste parole la parabola evangelica del «Figlio prodigo».

La meta ultima del percorso della vita umana e del desiderio autentico è la visione suprema di Dio. Tuttavia è significativo che nella contemplazione della purissima trascendenza della Trinità, Dante veda un volto umano: è quello di Cristo, la Parola eterna divina fatta carne nel grembo di Maria. Per questo la «circulazion», la dinamica trinitaria, di «tre giri / di tre colori e d’una contenenza…, / mi parve pinta de la nostra effige» (Paradiso xxxiii , 127-131). Come commenta Papa Francesco, «l’essere umano, con la sua carne, può entrare nella realtà divina, simboleggiata dalla rosa dei beati. L’umanità, nella sua concretezza, con i gesti e le parole quotidiane, con la sua intelligenza e i suoi affetti, con il corpo e le emozioni, è assunta in Dio, nel quale trova la felicità vera e la realizzazione piena e ultima, meta di tutto il suo cammino».

In questa luce suggestivo è, nella Lettera Apostolica, il riferimento all’Epistola xiii a Cangrande della Scala in cui Dante confessa che «il fine del tutto e della parte è rimuovere i viventi in questa vita da uno stato di miseria e condurli a uno stato di felicità». Con questo programma, nota il Papa, egli «si erge a messaggero di una nuova esistenza, a profeta di una nuova umanità che anela alla pace e alla felicità», traendola dal fango infernale degradante per condurla allo sfolgorare della beatitudine celeste.

Una trilogia femminile


In questa rappresentazione dell’itinerario umano e spirituale dell’umanità, che è la filigrana delle tre cantiche, dei cento canti e dei 14.223 endecasillabi della Divina Commedia, significativo è l’ingresso in scena delle figure femminili. La prima ovviamente è Maria, «Vergine Madre, figlia del tuo Figlio», esaltata nel celebre inno del finale canto xxxiii , ma già contemplata su invito di san Bernardo come «la faccia ch’a Cristo / più si somiglia» (Paradiso xxxii , 85-86).

La seconda è Beatrice, «l’amore divino che trasfigura l’amore umano», come annota il pontefice, citando la voce della donna nell’avvio stesso del cammino di ricerca del poeta: «I’ son Beatrice che ti faccio andare; … amor mi mosse, che mi fa parlare» (Inferno ii , 70.72). E, infine, ecco Lucia, santa martire siracusana, che interviene sia agli inizi infernali del viaggio di Dante, sia nell’ascesa sulla montagna del Purgatorio, sia nella «candida rosa» paradisiaca, sempre intercedendo per il poeta. Ma non poteva mancare, a suggello della lettura dantesca del Papa, il santo di cui egli porta il nome, Francesco d’Assisi, protagonista del canto xi del Paradiso, figura cara non solo a lui ma anche a Dante, tant’è vero che il Pontefice stabilisce un suggestivo parallelo tra il santo e il Poeta.

Papa Francesco chiude la sua Lettera dipingendo il pellegrinaggio dell’umanità nella vita e nella fede «finché non arriveremo alla meta ultima di tutta l’umanità, “l’amor che move il sole e l’altre stelle”», il celebre ultimo verso di un poema umano e divino.

E la sua voce diventa un appello alle comunità cristiane perché riscoprano l’opera dantesca nella capacità di dire Dio in modo bello, di stimolare la consapevolezza del male, ma anche di aprire lo squarcio sulla speranza escatologica, di vivere la fede e l’amore in pienezza, senza decollare dalla realtà ma tenendo ben fisso lo sguardo verso l’infinito e l’eterno ove Dio attende l’umanità per abbracciarla.

La Santa Sede e l’anno dantesco


L’appello papale si allarga, poi, ai docenti perché siano capaci di far incontrare i giovani con Dante e il suo messaggio e agli artisti perché attingano a questo tesoro di immagini, di temi, di figure, di scene per ritrovare lo spunto profondo della bellezza. Proprio per questo, anche rivolgendosi ai non credenti, il Cortile dei gentili, a partire dal 25 marzo, offre a tutti la possibilità — in collaborazione con la Biblioteca apostolica vaticana — di compiere attraverso il proprio computer un percorso virtuale affascinante — intitolato appunto «Viaggiare con Dante» — nello scrigno prezioso dei codici, dei testi antichi, dei disegni, delle incisioni e persino della numismatica che sono ospitati in quell’istituzione vaticana (www.vaticanlibrary.va/it/viaggiare—con—dante.html).

Sarà l’avvio di una ricca serie di eventi successivi che il Comitato dantesco della Santa Sede, che ho l’onore di presiedere, distribuirà nell’anno dantesco, coinvolgendo anche i Musei Vaticani, portando Dante persino nelle catacombe con attori come Carlo Verdone, Margherita Buy, Alessandro Haber e Nancy Brilli, stimolando la ricerca sull’escatologia dantesca attraverso un Convegno internazionale che si celebrerà a novembre nell’università Roma Tre.

Altri saranno i momenti e gli eventi destinati a provocare e a scuotere un mondo spesso distratto e superficiale o chiuso nelle paure della pandemia, così che alzi lo sguardo verso l’infinito, il mistero, il senso ultimo dell’essere e dell’esistere, fino a riacquistare col Poeta la possibilità di «riveder le stelle» (Inferno xxxiv , 139). Non si dimentichi infatti che tutte le tre cantiche della Divina Commedia hanno come parola terminale proprio il vocabolo «stella».

Non privarsi della felicità di leggere Dante


Aggiungiamo in appendice un’ultima nota riguardante quel contrappunto armonico che rende la Divina Commedia un testo supremo nella sua capacità di tenere in armonia perfetta gli antipodi. Pensiamo all’euritmia mirabile tra la poesia purissima e la più raffinata speculazione teologica.

Oppure allo straordinario connubio tra l’assoluta creatività del genio poetico e lo stampo rigido dell’endecasillabo e della rima, come accadrà, in maniera analoga nell’eccezionale consonanza tra l’impeccabile e sofisticata tecnica musicale di Bach e le sue affascinanti architetture melodiche.

O ancora pensiamo all’interazione unica tra astrazione tematica e parola dipinta, come, ad esempio, accade nell’Antipurgatorio davanti a una schiera di anime che zs0 «come le pecorelle escon dal chiuso / a una, a due, a tre, e l’altre stanno / timidette, atterrando l’occhio e ’l muso, / e ciò che fa la prima e l’altre fanno, / addossandosi a lei s’ella s’arresta, / semplici e quete, e lo ’mperché non sanno» (Purgatorio iii , 79-84).

Potremmo continuare a lungo in questo elenco dei sorprendenti equilibri armonici della scrittura dantesca tra poli antitetici, alcuni dei quali evocati pure dalla Lettera di Papa Francesco.

C’è, infatti, anche l’arcobaleno delle sintonie tra storia e trascendenza, tra carnalità e spiritualità, tra contingenza ed eternità, tra epifania e mistero, tra peccato e grazia, tra tragedia e gloria, tra cronaca e profezia, tra giustizia e salvezza. In Dante si compie veramente la definizione del bello coniata da un altro grande poeta, Rilke, nell’avvio stesso delle sue Elegie duinesi: «Il bello è nient’altro che l’inizio del tremendo» ( i , 4). In questa suprema «simbolicità» — nel senso etimologico del termine, ossia del «tener insieme» gli estremi — la traiettoria che regge l’intero itinerario terrestre, infernale e celeste di Dante è il transito «all’etterno dal tempo» (Paradiso xxxi , 38), è, in ultima analisi, il mostrare «come l’uom s’etterna» (Inferno xv, 85).

Un grande appassionato di Dante, lo scrittore Jorge Luis Borges, caro anche a Papa Francesco, autore di Nove saggi danteschi (1982), confessava nelle sue Sette notti (1980): «Sono giunto alla fine. Voglio solamente sottolineare che nessuno ha il diritto di privarsi di questa felicità, la Divina Commedia. All’inizio si deve leggere il libro con la confidenza di un bambino, abbandonarsi ad esso, e allora ci accompagnerà per tutta la vita».

di Gianfranco Ravasi