Agostino Venanzio Reali e la tradizione di Montetiffi

Plasmato dal paese
della creta

Agostino Venanzio Reali «La passione» (particolare)
26 marzo 2021

È estremamente moderna la concezione di arte totale nella quale si inscrive l’opera di Agostino Venanzio Reali che tuttavia rappresenta un unicum come esperienza umano artistico letteraria perché non segue una tendenza, ma nel nascondimento, con discrezione, senza mai essere intrusiva, si fa preghiera, quasi risposta di lode della creatura al suo Creatore, fedele nella sequela francescana.

In realtà quella singolare inclinazione alla Via della bellezza che caratterizza tutto il percorso umano letterario e artistico di Reali si manifesta precocemente. Era nato nel minuscolo borgo di Ville di Montetiffi, al confine tra Romagna e Marche, il 27 agosto 1931. Bambino, il più vivace del paese, da piccolo si esercitava ad abbozzare ritratti e a modellare la creta, materiale di lavoro del vicino della porta accanto, poiché Montetiffi da tempo immemorabile era il paese «dove è maestra gente in far teglie» come scrisse il Pascoli. A scuola recitava poesie dei poeti che imparava a memoria spacciandole a volte scherzosamente per proprie tra gli amici ignari. Con questa sensibilità molto presto rimase affascinato dalla poesia racchiusa nella Sacra Scrittura. Non è un caso che il lavoro scientifico più importante come esegeta sia una introduzione al Salterio e l’opera prima di poesia una trasposizione poetica dall’ebraico del Cantico dei Cantici.

Entrò in seminario a 11 anni, accolto come novizio a Cesena a 16, con il nome di fra’ Venanzio, emise la professione perpetua nel 1952 a Bologna, dove nel 1957 venne ordinato sacerdote e poi inviato a Roma per conseguire la licenza in teologia all’università Gregoriana e in Scienze Bibliche al Pontificio Istituto Biblico.

Gli anni romani furono particolarmente intensi, non solo sotto l’aspetto della formazione religiosa e culturale ma anche per le relazioni che intrattenne con l’ambiente letterario e artistico della capitale. Amava incontrare i poeti, che rispondevano ciascuno a suo modo: «Quasi non mosse il greve labbro di glicine: / io che cercavo nei poeti granai di stelle / incontrai il fitto silenzio / dei cimiteri etruschi / eterni nella vicenda dei fiori / ignari ergastolani del peccato» scriverà in un primo Ricordo di Cardarelli. Candidamente andava a visitare i poeti là dove vivevano, senza chiedere verosimilmente il permesso ai superiori (che non è detto sarebbero rimasti sempre del tutto soddisfatti). A casa di Pasolini si intrattenne a volte con la madre, che non gli nascose le sue ansie per le inquietudini del figlio. Giorgio Caproni presentò alla radio la poesia Primaneve (1961) e, iniziato uno scambio epistolare, gli inviò l’inedito de Il gibbone. Con gli scrittori del gruppo romano finiva di solito che il giovane frate entrava in quella simpatia e confidenza per cui rimaneva nell’ombra la sua propria poesia e la conversazione verteva sulla ricerca personale della loro spiritualità.

In «Fiera Letteraria» (1961), accolte favorevolmente dalla critica, apparvero le poesie Primaneve, La visita e Mare; colpirono anche Dora Maccarelli Pettinella, traduttrice di poesia per varie riviste statunitensi, la quale con fatica, dopo anni, tramite un monsignore residente a New York riuscì a mettersi in contatto con l’autore (maggio 1969) cui chiese di inviargli i libri. Padre Venanzio aveva allora qualcosa come 1.500 componimenti nel cassetto, inediti. Ma nel frattempo, terminati gli studi, era rientrato in Provincia, come formatore, un compito che non sentiva del tutto consono anche perché non propriamente concorde con la linea invalsa a livello istituzionale in fatto di formazione, e aveva ottenuto l’incarico di cappellano dell’ospedale Bellaria di Bologna; al contempo teneva corsi di Sacra Scrittura. Poesia e arte erano un lavoro notturno e le pubblicazioni erano l’ultimo dei pensieri; così alla Pettinella consegnò un certo numero di testi di cui solo quattro sono stati recentemente ritrovati, pubblicati nella traduzione di lei in «Mundus Artium» (1971), rivista della Ohio University.

Coltivò per lungo tempo un progetto ampiamente articolato di opera omnia, Parabole del mio tempo, che non poté portare a compimento, per cui a un certo punto si rese conto di dover operare delle scelte; e dopo l’opera prima, affidò alle stampe Musica Anima Silenzio - velleità di un omaggio a Emily Dickinson (Rebellato 1986), Vetrate d’alabastro (confessioni e preghiere) (Forum/«Quinta Generazione» 1987), Bozzetti per creature, (Forum/«Quinta Generazione» 1988).

La visita e Primaneve sono poesie che ebbe sempre care, collocate a un anno di distanza in entrambe le prime due raccolte. Negli ultimi tempi, incalzando il male che troppo tardi provò a curare, si affrettò a riordinare tutta la produzione poetica, per tanta parte tuttora inedita. Quando si spense a Bologna, nella festività dell'Annunciazione, il 25 marzo 1994, i confratelli si trovarono davanti a un’eredità imponente di cui non avevano cognizione, e per la poesia si affidarono all’università bolognese, contattando Ezio Raimondi che già aveva curato l’introduzione a Vetrate d’alabastro, per valutare l’opportunità di pubblicare qualcosa. Nel primo anniversario uscì l’antologia postuma Nóstoi. Nell’occasione con lo stesso titolo fu pubblicato un catalogo a documentazione della mostra di pitture e sculture che i frati riuscirono a reperire, tra cui un ciclo pittorico di Creazione e uno di Via Crucis, nati ad uso catechistico in quegli effervescenti multicolori anni romani, degni di interesse anche per le soluzioni iconografiche, innovative sul piano teologico. Vari cataloghi hanno fatto seguito a questo primo, ma l’opera figurativa non potrà essere mai compiutamente catalogata perché ciò che produceva molto spesso regalava, soprattutto sculture lignee e terrecotte. Le raccolte poetiche di Reali sono evidentemente riconoscibili per l’originalità del linguaggio, le immagini, il tratto, i colori, strettamente interferenti con l’opera pittorica e plastica. E si differenziano notevolmente l’una dall’altra. In realtà, se pure Reali non ha mai apposto date ai suoi lavori, è possibile riconoscere una sorta di percorso anche come proposta di lettura seguendo l’ordine cronologico delle pubblicazioni o di quelle che si possono intendere a una certa data come intenzioni di pubblicazione: si riconoscerà dunque il percorso conoscitivo di percezione-esperienza-riflessione di Incontro alle cose — mi scopro analogo a tutte le cose —; l'impatto con la presenza del male nella storia individuale e collettiva in Fantasmi di un reduce — pare essere questa la raccolta inviata al Premio Traiano 1985 —; la dialettica di parola, musica e silenzio, al centro l’anima, in Musica Anima Silenzio; e la dialettica di luce e ombra in Vetrate d’alabastro, che sottotraccia, allusivamente, è poesia liturgica; si riconoscerà ancora una piccola grande commedia umana in Bozzetti per creature divisa, non rigidamente, in due sezioni — maschile e femminile — e introdotta con la citazione da Proverbi: Deliciae meae esse cum filiis hominum; infine l’ultimo saluto agli amici in Congedo, la breve raccolta che solo parzialmente fu recepita nell’antologia collettanea Poeti italiani secondo Novecento a cura di Anna Mele Ludovico (Centro Incontri 1993): «Stringete il cerchio amici / profilati contro dune / o sotto chiare betulle. / Crepiti il fuoco / nella musica dei mondi / Dio è un riso di pupille / innumerevole più del mare // Ci ri-conosceremo in lui / amici di tutte le cose». Nel processo di graduale spoliazione, l’ultima raccolta consegnata sul letto di morte agli amici milanesi, con loro rivista per la pubblicazione, dapprima andata dispersa, Paglie, uscì in «Messaggero Cappuccino» solo nel 1998: sei poesie rastremate all’osso che non hanno più alcun residuo del codice poetico, e solo per allusione qualche minima cifra biblica: «Mio Dio / sono pieno di peccati / come un carro di fieno / di un tempo. / Ma so che basta / una goccia del tuo sudore / per tutto incenerire / quel ch’è mio».

di Anna Maria Tamburini


Poesia

Allora questa pace


Allora questa pace con i fiori
questa pace con gli uccelli
non vorremo piú farla?
Una rocca d’anni
logorata dal vento: e mi asserpolo
dentro lo scrigno della ragione,
mentre versano i merli limpide note di piano
e folate di passeri trapuntano di gioia il sereno.
Non voglio raccogliere le vele; salpare sì
verso tutte le rotte, poi bere, un meriggio,
l’acqua del pozzo di sichar.
Domandarlo alla gente un bicchier d’acqua,
una chiara freschezza di pupille.
Quando le labbra salse, le spalle bruciate,
greve il cuore di gabbiani feriti,
si torna le sere ai paesi miti di donne
contro il cielo che trema con la prima stella,
sosterò fra la gente che prega
la vergine madre nel trivio sotto l’elce
e avrò pace coi fiori, l’avrò con gli uccelli,
con gli uomini, con me stesso, con Dio.

(da Incontro alle cose , in Nóstoi )