Tra pena di vivere e creazione artistica nell’ottantesimo anniversario della morte

La caccia al tesoro
di Virginia Woolf

 La caccia al tesoro di Virginia Woolf  QUO-069
26 marzo 2021

Lo scrittore non ha altra vita se non nell’opera, perché è in essa che versa ogni emozione, sentimento, cura. Conforme a questo assunto, Nadia Fusini — nel raccontare la biografia di Virginia Woolf — non può che ricorrere alle sue opere. Nei romanzi, nei saggi, nelle recensioni, nelle lettere, nei diari, la Woolf (di cui il 28 marzo ricorrono gli ottant’anni dalla morte) manifesta la sua passione per l’esistenza. «Ed è con questo materiale che io intesso il mio racconto» scrive Fusini nell’introduzione al suo splendido Possiedo la mia anima. Il segreto di Virginia Woolf (Milano, Economica Feltrinelli, 2021, pagine 394, euro 13). La prima edizione del prezioso volume risale al 2006: questa ristampa offre pertanto l’opportunità di richiamare il valore di un testo intessuto di valutazioni illuminanti sul genio della scrittrice inglese.

La Fusini — la più importante studiosa italiana della Woolf — ne ricostruisce l’infanzia, per poi seguire, con rigore critico, gli anni di Bloomsbury, le passioni, il rapporto con il marito Leonard nonché «la battaglia femminista e il pacifismo». Il percorso di ricognizione non segue un ordine cronologico. S’impone invece un dinamico intrecciarsi di tempi che contribuisce a rendere ancora più vivido e coinvolgente il quadro di un’esistenza vissuta sul crinale di una tensione tra la “pena di vivere” e l’esaltazione della creazione artistica. La struttura narrativa seguita dalla Fusini si configura, in filigrana, come un atto d’omaggio al sentire di Virginia perché, come scrive la studiosa, ella «non crede che il senso dell’esistenza individuale si racchiuda in una trama di eventi. È piuttosto una caccia al tesoro». La Woolf «riconosce che la vita assomiglia, sì, ad un romanzo, ma solo quando il romanzo non pecchi di arroganza e non voglia imporre all’esperienza un ordine estraneo».

Di quando era bambina la Woolf ricorda la sensazione di stare raccolta dentro un acino d’uva. «Le pareva di vedere le cose che accadevano — scrive la Fusini — al di là di un velo giallo semitrasparente, una membrana, che non la separava dal mondo esterno». Piuttosto con quel mondo «la teneva in rapporto». Era «un conduttore sensibile» di visioni e suoni. L’esperienza simultanea che ne derivava era di protezione ed interezza. Questa visione è indice di una sensibilità morbida e raffinata, ma al contempo espressione di una particolare capacità di ghermire il segreto tumultuare di un flusso interiore di vita che scava in profondità fino a giungere a zone oscure ed inesplorate, soprattutto per chi si accontenta di rimanere in superficie, per non rischiare. Ma per Virginia Woolf — nel segno di un’etica sperimentata con coraggio e senza fronzoli — il timore di rischiare non poteva costituire un freno all’indagine del proprio io e del senso del mondo.

La Fusini pone un forte accento sulle malattie di Virginia, la quale si ammalò la prima volta alla morte della madre. Seguirono da allora «malattie nervose». Attecchì «una qual certa confusione» per cui «aveva la sensazione di essere lei la madre, di essere morta, e altre volte credeva di vederla». Nel frattempo non riusciva né a dormire né a mangiare. La morte della sorella Stella fu, in questo scenario, un colpo tremendo. La depressione la avvolse come un manto velenoso. E cominciò ad affacciarsi l’idea del suicidio.

I capolavori della Woolf, da Gita al faro ad Orlando, tracciano «una traiettoria di libertà» che, a sua volta, disegna in controluce «l’itinerario di un’anima in cerca di sé stessa» Si tratta, sottolinea la Fusini, di giungere alla «conquista di sé», alla «padronanza del proprio destino». La vita della scrittrice inglese si specchia in un processo di graduale assottigliamento. «La sua esistenza — afferma la studiosa — non procede secondo mosse acquisitive, semmai progressivamente si spoglia, lasciando via via cadere a mo’ di muta le identificazioni ideali».

Quando spedì una copia di Orlando al critico d’arte Roger Fry, questi sentenziò: «Sei un genio». A Virginia venne un nodo alla gola dalla commozione. Anche perché ella aveva per lui una venerazione, giudicandolo il solo uomo «davvero colto, davvero civile» che avesse conosciuto. Poi chiosò: «Se Bloomsbury avesse prodotto anche solo Roger, sarebbe alla pari con l’Atene di Pericle». Virginia dubitava, comunque, di essere un genio e di essere considerata tale. Tanto che, di fronte al trionfo di Orlando, ebbe a dire: «Che strano pensare che ho messo al mondo qualcosa che il mondo vuole». Del romanzo, nelle prime sei settimane dall’uscita, furono pubblicate ottomila copie in Inghilterra, dodicimila in America. Il «Manchester Guardian» lo definì un «capolavoro».

Rivolgendosi al lettore la Fusini dice di non poter evitare la domanda: perché si è uccisa Virginia Woolf? Una domanda che la studiosa trasforma in un’interrogazione. Chi ha ucciso Virginia Woolf? Chi l’ha spinta all’età di cinquantanove anni a guadare le acque fredde e limacciose dell’Ouse, a sprofondarvi, dopo essersi messa in una tasca del cappotto due pietre pesanti, consapevole, nel frattempo, di quanto fosse diventata leggera?

«In momenti di catastrofe, di lutto, di trauma, di tragedia (e quella primavera del 1941 lo fu non solo per Virginia, ma per una generazione intera) quando sono inaccessibili le fonti del piacere più maturo — scrive la Fusini — può accadere che alcuni (sono le creature più fragili, semplicemente) regrediscano a desideri arcaici, ricorrano ad idee elementari, come, ad esempio, trovare riposo nella morte». In quei momenti la morte non è immaginata come «l’orrendo becchino che con la falce in mano» ci strappa da una vita di piaceri, ma come «l’angelo nero» che ci promette la quiete e ci dona il bene inestimabile del sonno. Eterno.

di Gabriele Nicolò