San Cirillo di Gerusalemme ha scritto che «i martiri degli ultimi giorni supereranno tutti i martiri». Al termine di ogni anno l’Agenzia Fides ricorda i nomi e le vite di tutti i missionari e gli agenti pastorali cattolici uccisi nei dodici mesi precedenti. Nel resoconto del 2016 c’era anche il nome di padre Jacques Hamel, sgozzato nella sua chiesa a Rouen, vicino all’altare dell’Eucaristia. In quello del 2019 si raccontava anche di Suor Ines Nieves Sancho, la religiosa spagnola assassinata mentre a 77 anni continuava in Centrafrica la sua opera di insegnare alle ragazze il mestiere di sarta. Nel dossier Fides sui testimoni uccisi nel 2020 ritroviamo anche la storia di don Roberto Malgesini, il prete lombardo accoltellato a morte da una delle innumerevoli persone da lui soccorse, nel suo sacerdozio speso a servire le persone più fragili e in difficoltà.
I resoconti annuali di Fides consentono di cogliere dettagli interessanti dal punto di vista storico e statistico. Ad esempio, colpisce il fatto che negli ultimi dieci anni il numero più elevato di missionari e operatori pastorali uccisi si è registrato in Paesi americani a maggioranza cattolica. Si fa notare anche il progressivo aumento del numero di Paesi e aree geografiche in cui viene sparso il sangue dei missionari. Ma a rimanere impressi sono soprattutto i cenni biografici delle singole vittime e i racconti asciutti delle circostanze in cui hanno offerto il loro ultimo sacrificio. Lì si coglie con mano che la gran parte di loro sono stati raggiunti da morte violenta nella luminosa ordinarietà delle loro vite intrecciate alle vite degli altri, al servizio del bene di tutti, compresi — a volte — i loro stessi carnefici. In tante delle loro morti cruente non si ravvisa neanche il movente dell’odio religioso. Sono stati spesso uccisi da una rabbia e da una violenza senza ragione, da una ingratitudine che svela il mistero del male, come dice Gesù nel vangelo di Giovanni: «Questo perché si adempisse la parola scritta nella loro Legge: mi hanno odiato senza ragione» (Giovanni, 15, 25). La loro testimonianza usque ad effusionem sanguinis spesso non si è compiuta nel vortice impetuoso di eroiche imprese missionarie, magari lontano dalle loro terre d’origine, ma è fiorita nella trama dei loro gesti più abituali, in mezzo alle occupazioni di ogni giorno. Molti di loro — così è stato detto, parafrasando un’espressione cara a Papa Francesco — sono veri e propri “martiri della porta accanto”. Percepiamo la vicinanza delle loro vite intrecciate alle nostre. Possiamo riconoscere con gratitudine il singolare accento di prossimità con cui si manifesta, in questo nostro tempo, l’impronta del martirio che accompagna tutto il cammino della Chiesa nella storia.
La vicenda martiriale della Chiesa non si è chiusa con le passioni dei primi martiri cristiani, e nemmeno con le schiere di nuovi martirizzati nei mattatoi della storia del Novecento. Anche Papa Francesco, nel suo magistero, ripete che «Sempre ci saranno i martiri tra noi: è questo il segnale che andiamo sulla strada di Gesù» (Udienza generale, 11 dicembre 2019). Il compianto vescovo Camillo Ballin, vicario apostolico nella penisola arabica, commemorando le quattro suore di Madre Teresa trucidate in Yemen nel marzo 2016, riconosceva che «più la Chiesa è vicina a Gesù Cristo, più partecipa della sua passione» aggiungendo che chi si avvicina più a Cristo «è coinvolto nella sua passione e nella sua morte, per esserlo anche nella gloria della sua vittoria».
Nel mistero di carità che li unisce alla Passione e alla Risurrezione di Cristo, i testimoni della fede, morti per mano altrui, ci fanno percepire come, la salvezza annunciata dal vangelo, accade nella storia. Ogni generazione è salvata dai suoi martiri, che applicano la salvezza di Cristo agli uomini e alle donne del proprio tempo. E Cristo stesso consola e prende in braccio chi soffre e versa il sangue mentre segue i suoi passi, come ha ripetuto Papa Francesco anche nel suo viaggio in Albania del settembre 2014, dopo aver ascoltato le testimonianze di chi aveva sofferto persecuzioni nei decenni passati: «Possiamo domandare: come avete fatto a sopportare tanta tribolazione? Ci diranno quello che abbiamo sentito nella seconda Lettera di Paolo ai Corinzi: “Dio è Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione. È stato Lui a consolarci”».
La Chiesa non ha mai protestato per i suoi martiri. Li ha sempre celebrati come vincitori, riconoscendo che sono consolati da Cristo nelle loro tribolazioni. Martiri e testimoni non si lamentano, non recriminano, non sono eroi dell’ostinazione religiosa. Non rimproverano le fragilità e i cedimenti propri e altrui davanti alle prove. In loro anche la pazienza e l’assenza di rancore verso chi li tormenta non sono effetto di un rigido auto-controllo. Nascono come riverbero di un miracolo, segno della consolazione che Cristo stesso dona a chi soffre portando il Suo nome. Per questo i tratti propri che connotano in maniera imparagonabile le vicende di martirio cristiano possono diventare occasione di stupore e gratitudine per tutti, segni di salvezza promessa a ogni persona, perfino ai persecutori.
Chi nella sofferenza viene abbracciato e consolato da Cristo, non partecipa solo al dolore della sua Passione, ma anche al dolore di Cristo stesso per tutti quelli che soffrono ingiustamente, il suo abbassarsi per assumere su di sé le miserie, le ferite e le attese di salvezza di ogni creatura. Così, il martirio dei cristiani manifesta l’amore di Dio per tutti, abbraccia anche coloro che non appartengono alla Chiesa, quelli che non conoscono il nome di Cristo e perfino (o forse in maniera speciale) i nemici. Perché ogni essere umano, creato a immagine di Dio, rimane comunque «un fratello o una sorella in umanità», come ripeteva padre Christian de Chergé, priore dei monaci martiri di Thibirine. Ogni fratello o sorella è qualcuno per cui Cristo è morto e risorto. «La sofferenza dell’altro — ha scritto il santo ortodosso Silvano del Monte Athos — è la mia sofferenza, la guarigione del mio prossimo è la mia guarigione. La gloria del mio fratello è la mia gloria». Anche per questo appare inappropriato e violento ogni sforzo di prendere in ostaggio nomi di martiri cristiani come testimonial di mobilitazioni e “guerre culturali”, trasformandoli in rappresentanti “nostri” da contrapporre a mondi e contesti designati come “nemici”. In maniera analoga, si snatura l’autentica dinamica martiriale ogni volta che le vicende dei testimoni e dei martiri vengono rappresentati in chiave narcisistica, autoreferenziale, come prestazioni proprie. «Un martirio — fa dire Thomas S. Eliot al vescovo martire Thomas Becket nella sua ultima omelia, in Assassinio nella cattedrale — non è mai un disegno d’uomo; poiché vero martire è colui che è divenuto strumento di Dio, che ha perduto la sua volontà nella volontà di Dio, e che non desidera più nulla per se stesso, neppure la gloria del martirio».
Il martirio cristiano sgorga dalla vita di Cristo, operante nelle vite di uomini e donne. E questo rivela anche la connaturalità, la consonanza genetica, l’affinità elettiva percepibile tra martirio e missione, doni che attingono alla stessa sorgente di grazia. Il testimone missionario, come il martire, è colui che offre il proprio corpo, mette a disposizione la concretezza della propria condizione umana affinché in essa agisca e risplenda la grazia del Signore. Così, anche nelle vicende dei testimoni missionari e nei martiri si manifesta in maniera diversa il Mysterium Lunae, “Mistero della Luna”, prefigurato da alcuni Padri dei primi secoli cristiani come espressione più intima del mistero della Chiesa, che non brilla di luce propria, ma vive solo di luce riflessa, quando risplende della grazia luminosa di Cristo. Proprio come accade alla luna, quando il suo corpo opaco riflette la luce del sole.
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