Denuncia poetica
I piccoli in «La terza vita di Grange Copeland» di Alice Walker

Ruth e gli altri

 Ruth  e gli altri   QUO-066
23 marzo 2021

Tra uomini violenti e donne tenaci


Da tanti anni ormai introvabile nelle precedenti edizioni, La terza vita di Grange Copeland (Roma, Sur, 2021, pagine 356, euro 18), il romanzo d’esordio di Alice Walker torna in libreria grazie all’ottima traduzione di Andreina Lombardi Bom. La fama che aveva coronato il suo romanzo Il colore viola nel 1984, anche attraverso la trasposizione cinematografica firmata da Steven Spielberg l’anno successivo, ebbe in parte l’effetto di oscurare questa sua prima, potentissima opera narrativa. Potente perché a ogni pagina si sente, vibrante e al tempo stesso poetica, la denuncia di un sistema sociale costituito fondamentalmente da un circolo vizioso di violenze psicologiche e fisiche.

Siamo in Georgia, nel Sud degli Stati Uniti, terra di schiavismo e piantagioni di cotone. E sebbene la storia abbia inizio decenni dopo l’abolizione della schiavitù, la situazione in cui si trovano i protagonisti del romanzo è di poco diversa da quella dei loro antenati che venivano venduti come bestie da soma e soggiogati in cattività. La libertà che hanno acquisito è parziale, se non illusoria, e rivela che l’unica differenza, rispetto al passato, è la libertà che gli afroamericani hanno di farsi del male tra loro. Di sfogare la loro rabbia repressa sui propri simili più deboli perché contro i bianchi e contro il sistema ancora non si può fare nulla.

Sono i primi anni del secondo dopoguerra, e a subire questa atmosfera disumana di violenza sono specialmente i bambini. Brownfield, il protagonista, figlio di Grange Copeland, nasce in una famiglia di mezzadri che raccolgono il cotone e lui, come gli altri bambini, è costretto a ripassare tra le piante a raccogliere i rimasugli lasciati dagli adulti dopo la prima raccolta, mentre il fratellastro, più piccolo, ha il compito di passare l’arsenico sulla piantagione contro i parassiti.

Il bambino si chiama Star, «ma nessuno lo chiamava mai in nessun modo», scrive l’autrice, finché non muore e scompare dalla scena, come la madre Margaret, destinata a una presenza leggermente più incisiva, solo nel ricordo di chi resta. Star con l’arsenico tra le mani e il piccolo Brownfield curato dalle pustole col verderame sono le prime figure della condizione in cui è costretta l’innocenza dei bambini in un mondo in cui la monotonia del lavoro nei campi, le sbornie del sabato sera e gli adulteri continui lasciano ben poco tempo e ancor meno sensibilità per proteggere le nuove vite.

La terza vita di Grange Copeland è un romanzo ricco di straziata, dolorante umanità. Racconta di uomini violenti e donne tenaci e protettive ma impossibilitate ad arginare quel misto di sfogo, vendetta e sopruso maschilista che gli uomini della loro comunità prendono per libertà.

Grange, le cui tre vite danno corpo alla storia, lascia quel microcosmo e tenta di rifarsi un’esistenza al Nord, senza davvero riuscirci. Lascia la scena al figlio Brownfield, che cresce, sposa Mem (la figlia di una delle sue tante amanti), e con lei mette al mondo tre bimbe, Ornette, Daphne e Ruth. La povertà incombe su queste famiglie come un giogo impossibile da sganciare, ma si incatena senza lasciare via di scampo alla bestialità che poco per volta, crescendo, Brownfield quasi lucidamente riconosce come sua unica natura.

Le tre figlie, cui la madre tenta in ogni modo di risparmiare il destino di vittime, hanno un gioco preferito, e lo chiamano «ricordare quando papà era buono». In questa immagine sta tutto l’abisso che divide il mondo dei maschi adulti da quello delle bambine che saranno donne. Ma, se Ornette e Daphne riescono ad allontanarsi da questo microcosmo tossico nel momento in cui il padre finisce in prigione, Ruth resta, e diventa il ponte tra le tre vite di Grange, fornendogli un motivo di salvezza spirituale e di vera e propria redenzione. La sensibilità religiosa di questo romanzo, infatti, è inconfutabile. Non solo perché i personaggi fanno tutti parte della Chiesa metodista episcopale africana, ma perché la loro condizione di ex schiavi, nonché di schiavi effettivi nonostante le leggi avessero abolito il sistema, li avvicina chiaramente alla figura biblica di Giobbe, lo schiavo paziente.

In particolare il vecchio Grange, nonno di Ruth, è lo schiavo che riesce a rendere la sofferenza costruttiva invece che distruttiva. È colui che, nella sua terza vita, toccato dalla grazia di una nipotina amorosa e sagace, riesce a far sopravvivere la propria anima in un campo di sterpi rinsecchiti.

Ruth nasce in una casa così piena di spifferi che devono dormire in quattro o cinque nello stesso letto per non disperdere il calore del corpo e per evitare di morire assiderati prima che arrivi l’estate. Ma impara presto, quando si trova sola col nonno, «la magia dei propri abbracci e baci», il potere taumaturgico del suo affetto, che permette a Grange di rinascere, nel tentativo di proteggere la piccola Ruth dalle amarezze e le disgrazie di quel mondo. «Come poteva una persona così giovane riuscire a comprendere che le messi della fratellanza appassivano — si chiede silenziosamente Grange — e l’odio era simile alla pietra, la terra fra i cuori era bruciata, e la vendetta era un grido nell’anima di tutti costoro?».

Eppure Ruth comprende, assimila, elabora anche ciò che non le viene detto e diventa, negli anni, la speranza di un’intera generazione di afro-americani quando al suo mondo, attraverso la televisione, si affaccia un signore dallo sguardo e dall’eloquio accattivante che si chiama Martin Luther King. Il romanzo, infatti, percorre gli anni e approda all’epoca delle lotte per i diritti civili, cui il nonno Grange crede ben poco, se per lui i bianchi sono tutti come il suo primo datore di lavoro, un uomo che, come racconta, «mi avrebbe levato pure la pelle che ho addosso, se le cotenne nere fossero ben pagate».

È quindi un sistema di oppressione economica e sociale, quello cui si oppongono insieme nonno e nipote, un mondo in cui per dimostrare di essere un vero uomo l’unico atto che conoscevano era la violenza, e quando non sfigurava i volti delle loro donne, quell’atmosfera ne «rivestiva il viso incantevole come strati di vernice opaca stesi un anno dopo l’altro». Alla poesia e alla dolcezza delle parole, di cui è maestra Alice Walker nella sua prosa, si aggiunge una postfazione in cui l’autrice racconta la genesi del suo primo romanzo, fornendo un legame forse prevedibile, ma sempre affascinante e istruttivo con la realtà della sua storia e della Storia, con l’iniziale maiuscola, della sua nazione.

di Alessandro Clericuzio