Tra Antica e Nuova alleanza la figura di Giuseppe e la missione di chi è chiamato a custodire

Colui che salva
la sposa e il figlio

«Fuga in Egitto» (XII secolo, Palermo, Cappella Palatina)
23 marzo 2021

«Giacobbe generò Giuseppe, lo sposo di Maria, da cui è nato Gesù, chiamato il Cristo (Messia)» (Mt 1, 16). Così si conclude la «genealogia di Gesù Cristo, figlio di Davide, figlio di Abramo» (Mt 1, 1) contenuta nel primo capitolo del Vangelo di Matteo (Mt 1, 1-17), che apre il Nuovo Testamento fungendo da cerniera con l’Antico e che descrive le generazioni per parte maschile da Abramo a Giuseppe e a Cristo. Il passo mostra la continuità genealogica esistente nella famiglia di Davide e inserisce formalmente e legalmente Gesù nell’alveo del messianismo regale. Dal punto di vista giuridico Gesù è figlio di Davide, discendente del re-messia, proprio e soltanto in quanto è formalmente e legittimamente figlio di Giuseppe, e la paternità giuridica di Giuseppe su Gesù, a sua volta, ha fondamento giuridico in un fatto specifico, il matrimonio da lui regolarmente contratto con Maria, la madre (cfr. Redemp-toris custos 7).

Nella suddetta genealogia Giuseppe, che si configura come anello di congiunzione fondamentale, è individuato quale figlio di Giacobbe: condivide pertanto il nome di suo padre, e diverse altre dimensioni, con l’antico Giuseppe, la cui storia è narrata negli ultimi capitoli del libro della Genesi (Gen 37-50). Nella Bibbia, come è noto, i nomi non sono mai casuali: essi, al contrario, esprimono la missione assegnata a chi li porta; sono dati dai genitori, che esercitano sui figli l’autorità in ragione della loro missione procreatrice, su ispirazione divina; in alcuni casi capitali i nomi sono suggeriti esplicitamente da Dio, come nel caso di Giovanni il Battista (Lc 1, 13; Lc 2, 60) o di Gesù stesso, così chiamato dall’angelo nel momento delle due annunciazioni fatte a Maria e a Giuseppe (Lc 1, 31; Mt 1, 21; Lc 2, 21). Per alcuni personaggi centrali i nomi sono cambiati direttamente da Dio in certi momenti importanti e fondativi della storia biblica (si vedano i casi di Abram-Abramo e Sarai-Sara, Gen 17, 5.15, di Giacobbe-Israele, Gen 32, 29, di Simone-Pietro, Mt 16, 18).

Il nome di Giuseppe, nome augurale che nella lingua ebraica è connesso etimologicamente con la radice del verbo aggiungere, e che dunque evoca la ricchezza e l’abbondanza, riconduce lo sposo di Maria al suo antico omonimo, figlio di Giacobbe-Israele, nato dalla sposa amata, Rachele, della quale fu il primogenito, e a sua volta amato in modo speciale dal patriarca eponimo del popolo eletto, come le Scritture attestano e sottolineano (Gen 37, 3).

Giuseppe è colui che ha in abbondanza, colui che è benedetto ed è prediletto: così fu l’antico Giuseppe e così appare anche lo sposo di Maria, che ne condivide il nome, anche lui benedetto e amato in modo speciale, tanto che a lui Dio decide di affidare il figlio e Sua Madre.

La storia dell’antico Giuseppe è una storia di benedizione. È Dio stesso che ha cura di lui e protegge la sua vita. Una volta giunto in Egitto, Giuseppe, anche in ragione della sua dote legata all’interpretazione dei sogni, da schiavo che era diventa potentissimo, e in questa posizione di preminenza riceve dieci dei suoi fratelli, giunti in Egitto dalla terra di Israele per acquistare grano e così fronteggiare la carestia che ha colpito il loro paese. Giuseppe li accoglie e, non riconosciuto da essi, fornisce il grano richiesto; poi, con uno stratagemma, induce i dieci a tornare presso il vecchio padre Giacobbe per condurre in Egitto anche lui e l’unico fratello rimasto con lui in terra di Israele, Beniamino, il più giovane di tutti i figli di Giacobbe e l’unico altro nato, come Giuseppe, da Rachele, la sposa amata. In tal modo l’intero popolo eletto, impersonato dal patriarca eponimo e dalle famiglie dei suoi dodici figli maschi, capostipiti delle dodici tribù di Israele, si trasferisce in Egitto, e, mentre nella terra promessa avrebbe finito per soccombere, lì viene salvato dalla carestia e può prosperare e proliferare.

Nell’ultima storia della Genesi, che salda il primo libro della Bibbia al secondo, Giuseppe, “l’abbondante”, il benedetto, l’eletto, si configura dunque come un uomo di Dio, chiamato a salvare, in Egitto, il popolo di Israele — che in tutta la Bibbia è individuato come la sposa eletta di Dio (e.g. cfr. Is 62; Ez 16; Os 2) — e la sua discendenza. Come l’antico Giuseppe, che salva dunque in Egitto “la sposa e i figli” da una carestia mortifera, anche il nuovo Giuseppe, nella prima storia del Nuovo Testamento, è chiamato a salvare la sposa e il figlio dai pericoli che corrono e dalle insidie loro tese, e lo fa cominciando dall’Egitto, terra nella Bibbia sempre ambivalente, in quanto si configura come luogo di schiavitù e di morte ma anche come luogo che offre rifugio e salvezza. Tale l’Egitto si manifesta anche per il bambino Gesù: in quella terra infatti, grazie all’intervento del nuovo Giuseppe, che su di lui esercita la paternità umana, il Salvatore può vivere e crescere in pace e sicurezza, protetto dalle insidie di Erode.

Nell’Antica e nella Nuova Alleanza, dunque, Giuseppe, “l’abbondante”, il benedetto, l’eletto, è colui che salva la sposa e salva il figlio, la discendenza. Salvare la sposa e salvare il figlio è la prima chiamata dei papà, e nel salvare la sposa e il figlio, nel salvare la vita umana che ha in sé l’impronta della vita divina, si salva l’opera della creazione: anche Noè, prima del diluvio, salva nell’arca la sua sposa e i suoi figli con le loro spose e, con essi, salva tutte le creature viventi (Gen 6, 17-20; Gen 7, 7-9); contro la sposa e contro il figlio, dalle origini del mondo e fino al suo termine, si scatena la battaglia del maligno, nemico della donna — in quanto prima alleata della vita e del Dio dei viventi — e della sua stirpe (Gen 3, 15), persecutore della gravida e pronto a divorarne il figlio appena nato, figlio che però è sempre protetto da Dio (Ap 12, 1-6). Salvare la sposa e, con lei, il figlio si configura dunque come una azione impervia e difficile, fin dal principio e in tutti i tempi avversata dal nemico, ma gradita al Signore della vita. La capacità di Giuseppe di custodire la sposa e il figlio, che sono “il tesoro più prezioso della nostra fede” (cfr. Patris corde 5), mostra in lui lo sposo della coppia nuova, riscattata dal peccato della prima coppia creata, quella dell’Adam maschio e femmina, e restituisce al maschile la missione e la forza di custodire il femminile, missione che Adam non aveva saputo portare a compimento, concorrendo in tal modo alla caduta originaria, che è la caduta congiunta dell’uomo e della donna, dei due insieme. In Maria e Giuseppe la coppia umana, chiamata all’unità e alla generatività, trova un modello di bellezza e di alleanza che conduce alla redenzione, e vede restaurato, per grazia, quanto pensato da Dio per l’uomo e la donna al principio della creazione. La salvezza della sposa e del figlio è dunque specialmente affidata all’impegno dello sposo e padre, che si pone a custodia: nelle storie del Natale, nelle quali prende carne il mistero di un Dio fatto bambino e messo nelle mani di una mamma e di un papà, il capo della Santa Famiglia assume il proprio ruolo di protezione, di custodia e di salvezza attraverso il mettersi all’ultimo posto, quello di chi sembra inutile e invece è fondamentale, e attraverso la capacità di tacere per custodire, che è, in ultima analisi, la capacità di mettersi in ascolto di Dio per conoscerne le strade, per discernere la Sua volontà e compiere quanto Egli ha pensato per realizzare la salvezza.

Matteo ci tramanda l’annuncio della nascita di Gesù che Giuseppe riceve in sogno, per bocca di un angelo (Mt 1, 18-25): il particolare del sogno, che ritorna più volte nei racconti relativi al capo della Santa Famiglia, riconduce non casualmente lo sposo di Maria al suo omonimo dell’Antico Testamento, che sognava la volontà di Dio ed era capace di interpretare i sogni altrui. Il passo mette in luce il carattere precipuo di Giuseppe, la sua capacità di discernimento: la relazione viva e autentica che egli intrattiene con il Signore gli consente di mettere nelle Sue mani le proprie preoccupazioni, e di cercare la via migliore per risolverle, a beneficio di tutti. Giuseppe, turbato dalla gravidanza inattesa della sua sposa, di cui non conosce ancora l’origine divina, pone comunque al centro del proprio discernimento, come già aveva fatto il suo antico omonimo al momento dell’incontro con i suoi fratelli in Egitto, non la propria gratificazione e il proprio interesse, ma il dovere di rispettare la persona umana, quella del bambino che sta nascendo e quella della madre, colei alla quale si era legato con il vincolo coniugale. Possiamo immaginare la sua sofferenza, anche la delusione che ha provato di fronte a un evento inaspettato e incomprensibile: lungi dal cedere alla rabbia e alla frustrazione, però, Giuseppe sceglie la discrezione rispettosa di tutte le persone coinvolte e il silenzio orante, nel quale gli è possibile ascoltare la voce di Dio e l’annuncio della salvezza (cfr. Mt 1, 20-21).

Ciò può accadere nella vita di Giuseppe perchè egli è una persona che sa stare con Dio, e proprio per questo è capace, indipendentemente da quello che sta vivendo e dagli interrogativi che la realtà gli pone, di fare come il Signore gli suggerisce. Così dopo il primo sogno, egli, obbedendo alle parole dell’angelo, “prende con sé la sua sposa” (Mt 1, 24), e poi, dopo la nascita di Gesù, prende con sé anche il bambino: non a caso sempre Matteo ripete, quasi come un ritornello, che “Giuseppe si alzò e prese con sé il bambino e sua madre”, Mt 2, 14.21, e mostra che egli lo fece non in funzione di una sua personale iniziativa, ma proprio in obbedienza a quanto indicato dall’angelo (Mt 2, 13.20). È questo l’insegnamento che ci consegna il padre davidico di Gesù, il quale, nella Santa Famiglia, è la persona più simile a noi, come noi segnata dal peccato originale e dall’imperfezione. Sul suo esempio ciascuno di noi, per essere veramente felice della felicità che Dio ha pensato specialmente per lui — felicità del tutto diversa da quella che ciascuno, da solo, ha pensato per se stesso — deve avere il coraggio e la prontezza, anche mentre scopre negli eventi della sua vita lo stravolgimento completo dei propri piani e delle proprie priorità, di non cadere per questo nella prostrazione, ma di “alzarsi” e compiere la volontà del Signore, andando non dove si vorrebbe, ma dove Dio indica — rinnovando in tal modo, nuovamente, l’atto di fede di Abramo, fondativo della storia biblica — e “prendendo con sé”, sempre, “il bambino e sua madre”, nella certezza che la loro presenza e vicinanza, l’accompagnamento di Dio e di sua madre, è sicurezza e protezione, è tutto ciò che conta ed è ciò che basta, anche nelle vicende più terribili e imprevedibili dell’esistenza.

Un significato capitale assume, nella figura di Giuseppe, proprio il suo lavoro, l’attività da lui svolta, che è quella dell’artigiano, del “costruttore”. Egli è capace di migliorare il creato con le sue mani, realizzando così, finalmente, quanto è stato chiesto ad Adam prima del peccato, “coltivare e custodire” (Gen 2, 15) il giardino, che vuol dire anche immaginare, costruire, realizzare e far crescere, “far sgorgare dalla terra un canale e irrigare tutta la superficie del terreno” (Gen 2, 6). È al lavoro di Giuseppe che è affidata non solo la custodia di Maria e di Gesù, della sposa e del figlio, ma anche l’edificazione e la conservazione della Santa Famiglia nella sicurezza della vita e nella dignità del lavoro. Anche Gesù, insieme a Giuseppe, ha svolto il mestiere di falegname, come notano i Vangeli (Mc 6, 3), ed è stato proprio Giuseppe a insegnargli il lavoro, la fatica, l’impegno e la gioia di lavorare per guadagnarsi il pane, cioè di “coltivare e custodire il creato”, che significa, per ogni uomo sulla terra, fare la propria parte, secondo i carismi e i talenti ricevuti, perchè qualcosa migliori rispetto a come si è trovato il mondo. I racconti del Natale, conservati nei Vangeli di Matteo e Luca, mostrano il “coraggio creativo” di Giuseppe e insieme la sua docilità alla volontà di Dio, la sua disponibilità a lasciarsi guidare da Lui, anche a costo di vedere stravolti i propri personali progetti (cfr. Patris corde 3.5).

Imitare Giuseppe significa, sostanzialmente, accogliere il mistero con tutta la sua capacità di sconvolgere l’esistenza di chi lo accoglie, lasciando che questo sconvolgimento non solo non frustri e non faccia soffrire, ma regali anzi una felicità più piena. Nei Vangeli dell’infanzia si rinnova prepotente l’invito a “non temere”, elemento centrale della Buona Novella di Cristo e dell’annuncio stesso del Natale. Questo è l’invito potente che accompagna l’annuncio di ogni nuova vita, e che, seppure inascoltato, giunge fino alle orecchie di quanti attentano alla vita del bambino, come Erode, che di Lui ha una paura terribile. “Non aver paura del bambino”, questo è l’invito che deve essere portato a quanti, anche nel nostro tempo, temono un bambino che nasce e ritengono che debba essere eliminato come un problema, rinnovando, terribilmente, la strage degli innocenti, che realizza la visione di Apocalisse 12: la paura del bambino, infatti, è propria del nemico, che detesta la vita in quanto espressione di Colui che è la vita, e per questo, in ogni tempo, perseguita la donna gravida per «divorarne il bambino appena nato» (Ap 12, 4), in quanto quel bambino salva l’umanità e ogni bambino che viene al mondo, come Isacco, rinnova la benedizione di Dio e la promessa della salvezza (cfr. Gen 18). L’annuncio del Natale, dunque, torna a sconvolgere il mondo e a ripetere: “Non abbiate paura della vita che germina, perchè la vita è il dono di Dio”. Non è un caso, a questo proposito, che il bambino nasca a Betlemme, realizzando quanto profetizzato nel libro di Michea, secondo cui il Messia sarebbe nato nella città di Davide, Betlemme di Efrata (Mi 5, 1; Mt 2, 6), la città che anche nel suo nome, che in ebraico significa “casa del pane”, richiama alla necessità della tutela e della conservazione della vita e tramanda la profezia ultima di chi sia Gesù, il «Pane vivo disceso dal Cielo» (Gv 6, 48-58), corpo offerto e sangue versato sulla croce per la vita e la salvezza del mondo, ogni giorno dato agli uomini nell’Eucaristia.

Va sottolineato, peraltro, come Betlemme/Efrata sia una città che, per quanto piccola, nella storia biblica ha una importanza già nelle storie precedenti a quelle del re Davide, dal momento che per la prima volta compare citata in Genesi 35, 16-20: nella breve pericope, come è noto, si racconta la morte di Rachele, la sposa amata di Giacobbe-Israele, che aveva generato proprio Giuseppe, l’antico omonimo dello sposo di Maria. Secondo il racconto del passo genesiaco Rachele morì di parto — mentre dava alla luce Beniamino, l’ultimogenito di Giacobbe-Israele e suo secondogenito — presso Betlemme/Efrata, e fu sepolta lungo la strada (Gen 35, 16-20; cfr. Gen 48, 7). Si comprende allora come mai il Vangelo di Matteo, narrando la strage dei bambini dai due anni in giù di Betlemme e dintorni, ordinata da Erode (Mt 2, 16-18), citi, tra tutte le matriarche, proprio Rachele, e lo faccia riprendendo un passo del profeta Geremia in cui si fa menzione specificamente della sposa amata di Giacobbe-Israele e del pianto di lei, inconsolabile, per i figli perduti (Ger 31, 15; Mt 2, 17-18). Rachele, morta nel dare la vita proprio nel luogo in cui sarebbe nato l’Autore della vita, realizza con il suo sacrificio una potente profezia di quello che, nella pienezza dei tempi (cfr. Ef 1, 10), avverrà a Betlemme: la nascita di un bambino che morendo darà la vita e risorgerà. Nel passo matteano la sposa amata di Giacobbe-Israele, madre dell’antico Giuseppe, viene citata, con il richiamo alla profezia di Geremia, nel contesto di un racconto che ha come protagonista lo sposo di Maria, omonimo del suo figlio primogenito, ove il nuovo Giuseppe è descritto nell’atto di salvare la sposa e il figlio conducendoli in Egitto e lì custodendoli fino alla morte di Erode (Mt 2, 13-23). In tal modo il nome di Rachele e la sua azione si saldano a quelli di Giuseppe, riconducendo Betlemme alle storie d’Egitto, storie di dolore e di salvezza, e prefigurando la Pasqua del Signore, il Figlio di Dio Salvatore, il figlio di Maria, affidato con sua madre alla cura e alla custodia silenziosa e operosa di Giuseppe, figlio di Giacobbe, discendente del re-Messia, il re Davide.

di Laura C. Paladino