Un modo inatteso di rispondere a un mondo che ci fa sentire orfani

Il volto di un padre

Guido Reni, «San Giuseppe col Bambino» (1635)
20 marzo 2021

«Con cuore di padre: così Giuseppe ha amato Gesù, chiamato in tutti e quattro i Vangeli “il figlio di Giuseppe”». Così inizia la sorprendente lettera apostolica di Papa Francesco: sorprendente in quanto inattesa e ancora di più perché svela un modo (anche questo inatteso, direi inedito) di affrontare le problematiche che affliggono l’umanità oggi. «Dici davvero?!», uno potrebbe esclamare, diffidente. Vediamo. In filigrana, lungo la lettera, compaiono le sfide (e le afflizioni) che tormentano l’oggi: la pandemia, la disoccupazione, le fragilità familiari, i migranti/rifugiati; i problemi dell’educazione, quelli dell’avidità e della corruzione; gli abusi di ogni tipo... E come risponde il Papa? Risponde presentando un volto, un uomo concreto — di carne, ossa, terriccio — una figura umile, forte, tenera, casta e fiduciosa: un uomo spossessato e affidabile, un lavoratore (e sognatore) responsabile e creativo. Un modesto maschio ebreo, silenzioso e fattivo. Se Giovanni il Battista è la Voce che annunzia la Parola, Giuseppe è il Silenzio nel quale si forma la Parola, Gesù, come diceva la grande poetessa messicana, sor Juana Inés de la Cruz.

Perfino, sempre in filigrana, c’è la preoccupazione per una “ecologia integrale”, per un ecosistema adatto alla vita. Ogni essere vivente ha bisogno di un ecosistema speciale: un bambino ha bisogno di un ambiente favorevole per la sua crescita; non soltanto un ambiente sano dal punto di vista ambientale (nutrimento sano, aria pulita, un focolare, vestiti). Ha bisogno prima di ogni cosa di una madre e di un padre; poi, del resto. L’ecosistema è tutto quanto permette di crescere e di interagire con il medio ambiente, quello che consente di irrobustirsi, fiorire e fruttificare. Il padre ha il compito di garantire, coltivare e custodire un ecosistema adatto alla crescita del figlio: dal punto di vista fisico, emotivo, intellettuale, sociale, spirituale. Se si è orfani di padre, ci si ritrova disorientati, smarriti, vulnerabili, fragili. C’è una tenerezza che si declina al maschile, che è diversa (e complementare) alla tenerezza femminile; entrambe plasmano il bimbo che cresce, avvolgendolo in modo vitale, vivificante. Dice Papa Francesco che «Gesù ha visto la tenerezza di Dio in Giuseppe: “Come è tenero un padre verso i figli, così il Signore è tenero verso quelli che lo temono” (Sal 103, 13)».

Questa “via” della tenerezza mette al riparo sia dalle derive del colonialismo ideologico del gender, sia dalle oscure degenerazioni degli abusi. Sul primo punto ci ricorda questa lettera del Papa, in filigrana, l’umiltà della nostra origine “terrosa”, cioè che io non invento me stesso: né la mia altezza, né il colore della mia pelle o dei miei occhi, né il mio essere maschio — o femmina —, né l’essere sottomesso alla legge della gravità. Ignorare questo dato fattivo del reale, del corporeo, del biologico è appunto cadere nella trappola dell’ideologia, come voler ignorare la legge della gravità, o arrestare il passare del tempo. Il reale, essenzialmente ciò che si incontra e contro cui ci si scontra, ha una consistenza che precede tutte le nostre elucubrazioni, precede tutto quello che possiamo dirne o farne. Tale presenza positiva degli esseri e delle cose, percepita a livello sensibile, è l’unica base reale della verità. Il senso del tatto e la nostra salvaguardia contro l’onnipotenza. Dice il Papa: «Torna ancora una volta il realismo cristiano, che non butta via nulla di ciò che esiste. La realtà, nella sua misteriosa irriducibilità e complessità, è portatrice di un senso dell’esistenza con le sue luci e le sue ombre».

Sul secondo punto, questo testo presenta una castità vera in contrasto netto al dramma oscuro degli abusi. Ricordo una espressione che Papa Woj-tyła impiegò durante la sua visita allo splendido santuario polacco di san Giuseppe a Kalisz nel 1997, sul “toccare”. Si trattava del toccare di Giuseppe, del suo toccare il corpo di Gesù. Il pensiero venne a me come qualcosa di originario, di non ragionato, solo intuito; fu un tutt’uno con sentire qualcosa — qualcuno — che mette al riparo e riscalda. Mi ritorna la canzone di De André, «Poserò la testa sulla tua spalla / e farò / un sogno di mare / e domani un fuoco di legna / perché l’aria azzurra / diventi casa. // Chi sarà a raccontare / chi sarà / sarà chi rimane / io seguirò questo migrare / seguirò / questa corrente di ali».

Sento lo spazio che si apre — di un respiro vasto come il mare; e, come per un bambino, appoggiare la testa nell’incavo di un torso vigoroso, in un giaciglio caldo e odoroso. Al sicuro. Virilmente custodito. Come il Verbo fattosi carne nella casa di Giuseppe; come Gesù sul petto di Giuseppe, fra le braccia di Giuseppe...

Il Papa, allora, commentò — semplicemente — a Kalisz la preghiera in uso (= in disuso), rivolta al santo prima della celebrazione eucaristica:

«O uomo felice, beato Giuseppe, cui fu dato non solo di vedere ed ascoltare quel Dio che molti re vollero vedere e non videro, ascoltare e non ascoltarono, ma altresì di portarlo, baciarlo, vestirlo e custodirlo!

«O Dio, che ci rivestisti d’un sacerdozio regale, fa che, come il beato Giuseppe meritò di trattare — toccare — con le sue mani e di portare il tuo Figlio unigenito, nato da Maria Vergine, così noi possiamo servirti con tale mondezza di cuore e santità di opere, da poter oggi ricevere degnamente il sacrosanto Corpo e Sangue del tuo Figlio».

Non ci ricorda la donna che, audace, tocca l’orlo del manto del Signore, e venne guarita: «Chi mi ha toccato?» (Lc 8, 42-48)? La folla lo strattonava e pressava da tutte le parti, ma nessuno lo toccava davvero. Lei lo ha toccato con infinita discrezione e pudore, con riverente e speranzoso amore, con tremore... «Ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita... noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi». (1 Gv 1, 1-3). Ed è quindi dal toccare il corpo vivificante del Signore dove impariamo a toccare — e a essere toccati —... con lo stesso senso di rispetto e di onore per il mistero che sfioriamo, senza diritti ne pretese di sorta. Con timore e tremore, senza sconfinare e senza possessività. Castamente.

«Lo scopo di questa Lettera Apostolica è quello di accrescere l’amore verso questo grande Santo, per essere spinti a implorare la sua intercessione e per imitare le sue virtù e il suo slancio».

Se imiteremo lo slancio, lo si vedrà col tempo: possiamo incominciare con accogliere se non lo slancio almeno il lancio della sfida, con la fiducia certa che Giuseppe non ci lascerà soli e sbandati per strada. Perché prima è necessario frequentare una persona per conoscerla. Il Papa rimanda allo scrittore polacco Jan Dobraczyński e al suo libro L’ombra del Padre, dove ha narrato in forma di romanzo la vita di san Giuseppe. Con la suggestiva immagine dell’ombra definisce la figura di Giuseppe. Proviamo a metterci sotto la sua ombra, per gustare qualcosa della premura paterna del Padre celeste, dal quale ogni paternità prende nome.

Basta provarci: serve però ridiventare bambini, altrimenti non si entra nel Regno (né si gusta l’ombra del Padre). Un modo concreto è farlo mettendo un bigliettino con le intenzioni di preghiera per le situazioni che ci affliggono sotto la sua statua (come fa il Papa stesso, mettendoli sotto il suo san Giuseppe dormiente, che dorme sopra un materassino di intenzioni), come facevano del resto diversi santi. Tra questi merita di essere ricordato sant’André Bessette (†1937), il santo frère André di Montréal, Canada, canonizzato da Benedetto xvi , il più sfacciato di tutti nella sua sconfinata fiducia in san Giuseppe, al quale strappava grazie, guarigioni e conversioni a non finire. Fu un semplice fratello portinaio, vissuto fino a 91 anni: 40 anni portinaio del collegio dei religiosi di Saint-Croix ai piedi del Mont-Royal, seguiti da altri 30 anni come portinaio e custode della cappellina eretta in onore a san Giuseppe sulla cima del monte, diventato l’Oratoire Saint - Joseph de Montréal, il santuario più grande del mondo dedicato al santo, la “Lourdes canadese”.

Un altro modo (senz’altro, più che compatibile col primo, e utilizzato pure dallo stesso frère André) sarebbe usare con umile e spavalda fiducia la preghiera che Papa Francesco stesso recita da più di 40 anni (riportata nella nota 10 della Lettera apostolica), e che si conclude con notevole audacia: «Che non si dica che ti abbia invocato invano, e poiché tu puoi tutto presso Gesù e Maria, mostrami che la tua bontà è grande quanto il tuo potere. Amen». Provare per credere. Tocca a noi, adesso...

di Guglielmo Spirito


Affidamento a san Giuseppe


Il Signore tuo Dio ti ha portato come un uomo porta  il proprio figlio
per tutto il cammino che hai fatto,
Giuseppe, che hai preso con te Maria senza prenderla per te,
che hai dato il nome e una culla al Mistero taciuto per secoli,
rendici veramente vivi nell’amore,
miti, senza trattenere, creativi nel dar colore e calore  allo scorrere dei giorni,
alle stagioni del cuore, perché Dio sia di casa quando dona e quando prende,
quando viene e quando sembra assente.
Giuseppe, che a Gesù hai insegnato a camminare,  pregare, lavorare,
prendici per mano nei sentieri del quotidiano e insegnaci l’arte dell’attesa paziente e mite, dell’umile fortezza  nell’ascolto di Dio e della storia.
Che noi ci lasciamo fare come te, docili,  agli eventi della vita.
Giuseppe, uomo del silenzio e dell’ascolto,  che sai entrare e uscire
senza pretese di riconoscimento,
tu, guida guidata, insegnaci a diventare figli nel Figlio tuo e a riconoscere nella tua paternità quella, misteriosa  e luminosa del Padre.
Tu che hai portato il Signore tuo Dio, come un uomo porta il proprio figlio
per tutto il cammino che ha fatto.

(scritto dalle sorelle clarisse del monastero del Buon Gesù di Orvieto)