NEI LUOGHI DELLA PASSIONE/4
Il pretorio di Pilato

Il luogo della condanna

Un plastico della fortezza Antonia sede della guarnigione romana a Gerusalemme
20 marzo 2021

Erode il Grande fu il più famoso edificatore di palazzi in Gerusalemme, secondo forse solo all’antico re Salomone. Lo storico ebreo Giuseppe Flavio illustra con molto dettaglio l’attività costruttiva del sovrano. A Gerusalemme ingrandì il Tempio ebraico (La guerra giudaica, v , 5), edificò la Torre Antonia sull’angolo di nord ovest della spianata (La guerra giudaica, v , 8), e per sua residenza fece costruire un magnifico palazzo nella parte alta della città (La guerra giudaica, v , 4), là dove oggi si trova la Cittadella o Torre di Davide.

Questa sede regale (τα βασιλεια) divenne anche la sede abituale degli ufficiali romani quando si recavano a Gerusalemme. Giuseppe Flavio in particolare ci narra di Gessio Floro (La guerra giudaica, ii , 14, 8-9) un episodio che si presenta come molto simile all’evangelico processo di Cristo. Davanti al palazzo fu eretto il tribunale (βημα), e là fu emessa la sentenza che fossero prima flagellati e poi crocifissi non pochi tra i maggiorenti del popolo detenuti in precedenza dai soldati. Fu incrementato così enormemente il malcontento che condusse alla rivolta del 66 d.C.

Come a Cesarea, la sede governativa era probabilmente nel “Pretorio di Erode”, dove fu portato anche Paolo prigioniero (Atti 23, 35), così appare logico pensare che il Palazzo di Erode fosse il suo corrispondente a Gerusalemme. I nomi dati al luogo dagli evangelisti: “pretorio” in Matteo 27, 27, Marco 15, 16 e Giovanni 18, 28.33; 19.9, come anche “lithostrotos” e “gabbata” di Giovanni 19, 13, non sembrano offrire alcuna facile soluzione.

I discendenti della famiglia erodiana che salivano a Gerusalemme, soprattutto per le feste, avrebbero comunque potuto ancora risiedere nell’antico palazzo degli Asmonei, che si trovava presso il ponte che congiungeva lo Xisto con il Tempio. Là Erode Agrippa ii fece porre in alto la sorella, Berenice, perché fosse vista dal popolo, nel tentativo di compiere un ultimo gesto di riconciliazione nei riguardi dei fautori della sommossa (La guerra giudaica, ii , 16, 3).

Si tratta però, in ambedue i casi citati, di testimonianze relativamente tardive, cioè posteriori di trenta/quaranta anni all’epoca di Gesù. Non possiamo affermare con certezza che il comportamento dei contemporanei fosse sempre stato il medesimo.

Interrogando la tradizione cristiana antica


L’antico cristianesimo ci ha sfortunatamente trasmesso un numero molto limitato di notizie circa la memoria del Pretorio di Pilato. Poche, forse, ma sarebbe sbagliato ignorarle. Il pretorio viene detto in rovina nel quarto secolo dall’Anonimo Pellegrino di Bordeaux (333 d.C.) e da Cirillo di Gerusalemme (348 d.C.). Nel quinto secolo è una tappa della processione che si faceva durante la settimana pasquale (Lezionario Armeno e Calendario Georgiano). Tra il sesto e il settimo secolo è sede di una basilica che porta il titolo di Santa Sofia, cioè della divina Sapienza (Teodosio, Anonimo Piacentino, Sofronio di Gerusalemme, con l’aggiunta della testimonianza iconografica della Carta musiva di Madaba). Questo edificio, caduto da secoli in oblio ma riportato non molti anni addietro fortunosamente alla luce, è situato sul declivio della collina occidentale, non lontano dal Palazzo degli Asmonei.

Durante l’epoca delle crociate e il Medioevo


Theodorich, pellegrino e autore colto, di nazionalità tedesca, scrivendo nell’anno 1173 un Libellus de locis Sanctis, mette onestamente in guardia il lettore circa le difficoltà incontrate da lui nella ricerca dei luoghi storici: «Degli altri edifici, pubblici o privati, non abbiamo potuto ritrovare alcun segno o molto poco di essi, eccetto che della Casa di Pilato, presso la Chiesa della Beata Anna, madre di Nostra Signora, e presso la Piscina Probatica. Di tutte le costruzioni edificate da Erode, delle quali parla Giuseppe (Flavio), nonostante ne abbia fatto ricerca insistente, niente mi apparve se non un lato, che resta ancora, del palazzo che era chiamato l’Antonia, con una porta situata all’esterno presso l’atrio» (Theod. 128-131).

Dalla fine del xiii secolo troviamo un percorso ormai stabilito nell’area nord-orientale della città che prende la posizione dell’Antonia, situata sull’angolo nord-ovest della spianata, come punto di riferimento. In questa parte della città si collocano alquante memorie che appartengono al ciclo della Passione. Esse si organizzano in due parti: la Via Captivitatis (“via della prigionia”, dal Getsemani al Pretorio passando per le case dei pontefici, Anna e Caifa) e la Via Crucis (dal Pretorio di Pilato al Calvario con un percorso che gradualmente si è fissato in quattordici stazioni).

In un primo tempo questi luoghi furono percorsi da est a ovest, a partire dalla porta orientale (detta all’epoca “sterquilinia”, ora “di Santo Stefano” o “dei Leoni”), in un secondo tempo nel senso opposto, partendo dal Santo Sepolcro verso il Getsemani per poi ritornare in città dal lato del Sion (“il Santo Circolo”), e finalmente, oggigiorno, secondo il percorso standardizzato della Via Crucis. Leggendo le relazioni dei pellegrini occorre prestare attenzione alle indicazioni “a destra” o “a sinistra” della via, perché dipendono dalla direzione presa. In ogni caso non farà eccessiva meraviglia ritrovare palazzi e case saltare di qua e di là, se si tiene conto della sapiente messa in guardia di Teodorico sulla difficoltà di identificazione dei luoghi storici. Fino ad oggi persiste la medesima difficoltà. Le chiese della Flagellazione e della Condanna, così come il Lithostrotos, sono sul lato nord della via, ma la Prima Stazione si commemora ufficialmente sul lato sud. Ma le due chiese sono medievali ed il pavimento in pietra è adrianeo. Anche in questo caso occorre recuperare il senso delle memorie come luoghi di fede. Il Pretorio di Pilato può essere qui o altrove, Dio lo sa (e forse anche gli uomini potranno arrivare in qualche tempo a scoprirlo?), ma Gesù ha portato realmente la sua croce per noi, così come la devono portare coloro che lo seguono.

di Eugenio Alliata