Forza e mitezza, i doni nel padre putativo di Gesù

Colui che aggiunge

Trento Longaretti, «Famiglia» (1979)
18 marzo 2021

L’aver portato al centro dell’attenzione cristiana, da parte di Papa Francesco, la figura di san Giuseppe, assume il significato forte di proporre un modello di virilità che molto si discosta da quello scaturito alla tradizione patriarcale tuttora dominante. Proprio mentre sta emergendo il ruolo della donna nella società, coinvolgendo in profondità anche la Chiesa, questa scelta diviene particolarmente significativa; è necessario innanzitutto andare oltre gli stereotipi in cui si è incasellata questa figura. San Giuseppe non è solo il buon lavoratore, il padre mite, il marito custode, ma la prospettiva futura che può darci l’orientamento.

In primo luogo il nome, in ebraico Yosef (dalla radice Ysf: aggiungere) rinvia a un altro importante personaggio, a Giuseppe il sognatore, figlio di Giacobbe avuto in tarda età da Rachele: «Il Signore mi aggiunga un altro figlio». Anche nella storia di san Giuseppe assumono grande importanza i sogni: «Gli apparve in sogno un angelo del Signore». Nella Bibbia il sogno è un mezzo attraverso cui Dio parla, rientra nel vasto ambito dell’ascolto. Allude alla ricettività, tipica del femminile, allo svelarsi di situazioni misteriose. Caratterizza un maschile ammorbidito dalla vita contemplativa, mite, paziente, attento alla parola divina. Giuseppe figlio di Giacobbe, come Giuseppe sposo di Maria, costituiscono due grandi figure della salvezza. In essi non c’è protagonismo, ma l’umiltà grande di chi sta nella presenza, sotto lo sguardo amoroso di Dio e per questo addolciti e docili, rispettosi. La vita contemplativa fa vedere nello Spirito, oltre i velami dell’inganno. Rende silenziosi di quel silenzio che viene dalla solitudine di chi vede e sa che gli altri non vedono. Ne deriva una virilità depurata dai tipici connotati della prepotenza e della forza che si arrogano il dominio attraverso il possesso dei beni e delle persone; è all’interno di questo contesto però che si sviluppa il processo di liberazione del popolo, il cui capostipite è Abramo, ma che assume il suo vero nome in Giacobbe, in colui che ha combattuto con Dio: «Non Giacobbe sarà ora detto il tuo nome, bensì Israele perché hai lottato con Dio e con gli uomini e hai vinto». In cosa consiste però questa vittoria? «Ho visto Dio faccia a faccia e la mia vita è stata risparmiata». Consiste nell’accettare di stare alla presenza di Dio, di vivere il corpo a corpo con Dio, di aprirsi al suo amore. Giacobbe ne esce colpito, zoppicante. Il contatto profondo, intimo, chiede la resa. Il popolo amato si forgia attraverso questo cedimento. Dio chiede di combattere con lui. La lotta con Dio rende docili al suo amore, addolcisce, smorza aggressività e forza. Giuseppe il sognatore, salvando il padre Giacobbe, cioè Israele e i suoi fratelli, diviene strumento di salvezza del popolo amato. Ugualmente Giuseppe, sposo di Maria, proteggendo e custodendo Gesù, diviene strumento di salvezza dell’umanità che sorge dal figlio di Dio, dall’uomo nuovo in cui sono scomparsi potere e dominio e in cui maschile e femminile sono completamente armonizzati in unità. Israele custodisce la «promessa» di questa pienezza. L’attesa messianica si rifrange nel popolo in cammino come misterioso anelito verso una umanità in cui possa rifulgere la divinità senza più oscuramenti. Processo che richiede la costante lotta con Dio, quel combattimento interiore che conforma all’amore incarnandolo sempre più intensamente e di cui Maria e Giuseppe costituiscono il punto di arrivo. Maria, piena di grazia, esprime la passività contemplativa, la ricettività femminile pronta ad aprirsi senza riserve all’azione creatrice dello Spirito Santo. Giuseppe esprime le qualità di una virilità purificata, resa docile. L’apparizione dell’angelo nel sogno, rinvia alla lotta di Giacobbe. C’è una lotta con Dio dentro di lui, non può acconsentire a qualcosa che è oltre ogni possibilità umana. In questa lotta avviene la trasformazione dell’eros. Accettare una paternità al di fuori del vincolo di sangue, fondamento di tutte le genealogie, intacca un ordine sacro. Ma far crescere figli di Dio richiede proprio questo. Il passaggio iperbolico verso l’ordine spirituale richiede di rompere il tabù del sangue, di andare oltre la generazione umana per partecipare consapevolmente al piano della generazione divina. «Non conosco uomo», allude a questo.

La vita scaturisce dall’alto attraverso un continuo miracolo. La generazione umana si inserisce all’interno dell’eterna generazione della vita che proviene da Dio; è un immenso mistero che va amato e contemplato assumendo la responsabilità di una maternità e di una paternità rivolta verso ogni essere umano che viene al mondo in quanto figlio o figlia di Dio. La donna e l’uomo sono meravigliosi soggetti di questo miracolo che riguarda l’amore, sono invitati a partecipare alla mensa dell’amore, ma non ne sono gli artefici. Ogni essere umano appartiene a Dio e a nessun altro, neppure ai propri genitori naturali. Il vangelo spinge verso un’espansione d’amore che va oltre il proprio in ogni senso e che Gesù incarna e manifesta.

La vicenda di Giuseppe, il padre putativo di Gesù, apre dunque una prospettiva talmente evoluta che richiede di essere messa bene in luce. E non solo per quanto riguarda il modello familiare, ma anche la vita sacerdotale e religiosa che comporta quella purificazione dell’eros che non può essere realizzata se non alla presenza di Dio, attraverso quella lotta interiore che consuma e scioglie, ma che non è affatto né scontata né indolore e che nessuno può affrontare per propria volontà, ma solo perché mosso dallo Spirito. Ci sono forze in campo che non possono essere messe a tacere, né tanto meno essere rimosse. Questo toglierebbe significato al processo di purificazione e santificazione che la salvezza cristiana implica. È tempo di un cristianesimo sempre più incarnato che richiede contemplazione e lotta interiore come elementi costitutivi di quel processo di risveglio che va dalla morte alla vita e che consiste nella risurrezione della carne qui ed ora: purificazione della vita incarnata che non si fa attraverso regole e dottrine, ma che fa lo Spirito Santo in chi cede a se stesso e si affida. La Sacra famiglia allude proprio a una realtà che va oltre i legami di sangue. Ancora troppo edulcorata e molto poco incarnata, essa costituisce di fatto la svolta che attende la famiglia umana. Quel passaggio pasquale che conduce verso la verità smascherando, svelando, togliendo tutti i paraventi che nascondono oppressione, sopruso e ipocrisie che dominano le relazioni umane. Non si tratta dunque di salvare le apparenze e vincoli che ratifichino lo status quo. Non sono i ruoli da salvare, è necessario far fiorire relazioni di amore e questo è possibile solo attraverso l’intima comunione con Dio. L’amore è innanzitutto cedimento, resa, fiducia, abbandono. San Giuseppe solo dopo il sogno cede. Fa il passaggio più improbabile, ma possibile nell’economia divina. È un messaggio che rompe tutti gli schemi, che richiede di essere contemplato rimanendo nell’ambito del meraviglioso. Puntellati nell’economia della grazia perché basta poco per inciampare e ritornare indietro; e anche le cadute sono legittime perché non si possono fare forzature. Sostare nella comunione con Dio quando crediamo di andare avanti, ma anche quando ci sembra di tornare indietro. Questa la pazienza di san Giuseppe fatta di spostamenti, fughe, attese, soste nella vita ordinaria. Di quei lunghi silenzi di chi ancora non vede e resta lì, fermo, ma vigile. La sua amabile mitezza è data proprio dal suo silenzio, da quella resa interiore che non solo non sa, ma che neppure pretende di sapere perché si affida. In questa mitezza e docilità sprigiona la grandissima forza della stabilità, di una fermezza irremovibile.

Non è riportata neppure una parola di Giuseppe, ma il suo tacere fa percepire la sua rassicurante presenza verso la quale, nelle cose impossibili, sempre ci possiamo rivolgere.

di Antonella Lumini