Quando la televisione torna a fare cultura

Solo la parola
rende uguali

Da sinistra Giuseppe Patota, Noemi Gherrero e Valeria Della Valle nello studio della trasmissione «Le parole per dirlo»
17 marzo 2021

Le parole italiane permettono di dire «tutto ciò che si vuole», sono «brillanti come un giorno di festa» e «piene di vera poesia». A pronunciare questi ammirati giudizi furono rispettivamente Voltaire, Madame de Staël e John Keats. La ricchezza, lo splendore e l’armonia dell’italiano sono confermati da Le parole per dirlo, un programma di Rai 3 che è un affascinante viaggio nella nostra lingua organizzato in puntate che propongono argomenti ogni volta diversi (la lingua della letteratura, della televisione, dello sport, della comicità, della burocrazia e così via). Una conduzione garbata, quella di Noemi Gherrero, un ospite di turno esperto dell’argomento, una redazione giovane ed entusiasta che, guidata da Vladimiro Polchi, propone a commento delle parole immagini preziose, perché poco conosciute o inedite, alcuni studenti liceali che intervengono a distanza e due presenze fisse, Valeria Della Valle e Giuseppe Patota. Grandi linguisti e grandi divulgatori, sono loro a dare un passo felicissimo alla trasmissione che ha il rigore scientifico e l’accuratezza di un programma dove si fa cultura, ma la forma avvincente dell’intrattenimento.

Competenza, passione e sintonia permettono a Della Valle e a Patota di duettare in perfetta armonia e con straordinaria naturalezza: assecondando le esigenze del discorso le loro voci si sommano, si affiancano, si dividono occupando quando necessario territori diversi (ad esempio lessico e norme grammaticali) per poi tornare a incrociarsi e a completarsi. I due professori, come vengono amichevolmente chiamati, non confondono mai profondità con oscurità: parlano facendosi capire e conquistano l’attenzione alleggerendo il discorso con aneddoti, battute, incursioni nell’attualità e un tono sempre confidente e amichevole. Un talento creativo che accende ogni puntata e proietta la costellazione di parole legate all’argomento in una storia avvincente di relazioni tra lingua e vita vissuta. Unico rammarico la messa in onda la domenica alle 10.15, un orario che certamente penalizza gli ascolti.

La qualità rende Le parole per dirlo l’erede di un memorabile programma che ha scritto la storia della televisione pubblica. Condotto dal maestro Alberto Manzi e rivolto ad adulti analfabeti negli anni Sessanta del secolo scorso Non è mai troppo tardi permise a più di un milione e mezzo di italiani di conseguire la licenza elementare. Come osserva Giuseppe Patota quella trasmissione ancora oggi resta un modello insuperabile. Certo da allora tutto è cambiato. Quella di oggi non è un’Italia che deve imparare a leggere e a scrivere, ma è comunque un Paese che corre il rischio di un analfabetismo di ritorno e funzionale, che vede una quota significativa di povertà educativa minorile, che manca di un reale sapere diffuso, che legge poco e che investe ancora meno in istruzione e ricerca.

È cronaca di questi giorni una lettera di protesta apparsa sulle colonne de «La Repubblica» in cui si chiede la cancellazione dal dizionario dei sinonimi della Treccani di alcuni vocaboli lesivi della dignità della donna. Valeria Della Valle, dalle stesse colonne, ha risposto spiegando con chiarezza e incisività perché un dizionario non può rappresentare la «realtà come la vorremmo». Una replica che per ricchezza di argomentazioni può essere lo spunto per qualche riflessione. L’intento dei 100 firmatari è certamente nobile, ma l’obiettivo non è centrato. Sappiamo bene l’odiosità degli epiteti offensivi riservati alle donne e legati prevalentemente alla sfera sessuale; non a caso uno degli insulti più usati rivolti agli uomini colpisce le donne perché chiama in causa le loro madri. Ma un dizionario non crea, non propone, registra l’uso, racconta la storia, i contesti, spiega gli arricchimenti e gli slittamenti di una parola, di un’espressione, di un modo di dire. Cancellare delle parole sarebbe come l’illusione dei bambini più piccoli che coprendosi gli occhi e sottraendosi all’attenzione congiunta pensano di diventare invisibili.

Magari esistesse la possibilità di far sparire per magia vocaboli che offendono gli occhi e fanno dolere mente e cuore. E non solo quelle lesive della dignità delle donne, ma tutte le parole violente, ostili, aggressive, offensive, divisive, cioè le parole dell’odio e dell’intolleranza. Cancellarle purtroppo non serve. Fuori dalle pagine di un dizionario continuerebbero a correre per il mondo, antiche e nuove, tante, troppe. Dobbiamo crescere generazioni capaci di dialogare e non di insultare, dobbiamo togliere voce a queste umilianti offese e lo dobbiamo fare con più forza di sempre in questo momento della nostra storia reso così drammatico dalla pandemia che ha una ricaduta vertiginosa sulle donne. In tempi di criticità economica e di forte vulnerabilità sociale (perdita del lavoro o instabilità del reddito soprattutto femminile), aumento della violenza domestica (11 donne uccise nei primi due mesi dell’anno), maggiore carico delle cure familiari, non possiamo permetterci di disperdere forze. Più di sempre occorre contrastare ogni forma di violenza, discriminazione, disuguaglianza e tutelare le donne attraverso la capillare difesa delle loro potenzialità e dei loro meriti, vale a dire il diritto allo studio, al lavoro, all’equità salariale a cui si deve aggiungere il potenziamento delle strutture a difesa e sostegno di quante subiscono nell’ambiente familiare intimidazioni e aggressioni. Vorremmo solo parole belle o, per usare un lessico caro a Papa Francesco, parole-ponte e non parole-muro o peggio parole-pietre. Purtroppo la gomma da cancellare non basta. Facciamone un progetto concreto, quotidiano, senza sconti ma anche senza illusorie scorciatoie che finiscono solo per distrarre e non aiutano a raggiungere l’obiettivo.

L’educazione linguistica, osserva Luca Serianni, è parte essenziale di un’educazione alla cittadinanza consapevole. Ecco allora l’importanza di programmi come Le parole per dirlo. Sembrano ormai lontani e capricciosamente irragionevoli le condanne perentorie e i toni apocalittici che accompagnarono gli esordi della televisione, quella “scatola luminosa” che secondo alcuni sarebbe stata “ladra di tempo”, “cattiva maestra” e avrebbe segnato la fine dell’esperienza del dialogo. La televisione è stata e in qualche caso, come nel programma Le parole per dirlo, è ancora strumento di educazione e di crescita. Torna alla mente la celebre lettera pastorale del cardinale Carlo Maria Martini, che lui stesso a suo tempo definì «ardita» e «temeraria» e che oggi possiamo chiamare solo illuminata. Con quel richiamo a una suggestiva pagina evangelica (Luca 8, 42-48), Martini osservava che il mezzo televisivo poteva essere dono come «il lembo del mantello». Comunicare non è merce ma comunità e sapere di più e meglio aiuta a sentirsi fratelli non nemici perché, come diceva don Milani, «è solo la lingua che rende uguali».

di Francesca Romana de’ Angelis