Anna Maria Ortese e il suo viaggio nella Napoli profonda

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dalla città involontaria

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16 marzo 2021

Nei suoi racconti l’autrice s’aggira per le strade del capoluogo campano e descrive realtà che definisce «intollerabili»


Andare là, dove accadono le cose. Scrutare con coraggio ciò che sta intorno. Raccontare al mondo l’umanità — quella più nascosta, reietta. Tutto questo Anna Maria Ortese (1914—1998), tra le voci più importanti del Novecento italiano, lo fa in uno dei suoi libri più belli. Il mare non bagna Napoli, apparso per la prima volta nel 1953, è una raccolta di racconti di base giornalistica, attraverso cui l’autrice s’aggira per le strade del capoluogo campano e mette nero su bianco la realtà che definisce «intollerabile», a causa della miseria, della fame e delle brutture che hanno colpito le persone «uscite in pezzi dalla guerra».

Non sta dunque ferma Ortese: va nei bassi, nei vicoli più profondi, «scende agli Inferi — scrive Pietro Citati — nel regno della tenebra e delle ombre, dove appaiono le pallidissime figure dei morti» e, come una vera reporter — partendo da un dettaglio che le suscita una data visione o tramite una cronaca dal linguaggio poetico — narra quanto gli altri non vedono o, peggio, fanno finta di non vedere.

Al momento chi scrive è reduce dalla rilettura del Mare. L’occasione si è presentata grazie al tema dell’odierno Quattro Pagine, i tombini. E i tombini, all’interno di tale testo che prende Ortese per parlarne, sono intesi come ciò che sta sotto, chiusure strumentali a sigillare – allontanandone luce e vista altrui — le viscere di un luogo. I tombini hanno un senso metaforico: rappresentano la barriera tra due anime di una stessa città, quella dei vivi e quella dei morti. Ebbene Ortese, la città dei morti tappata dai tombini, la Napoli sotterranea, infima e logora, sceglie di attraversarla. La scrittrice de L’Iguana (1965), Poveri e semplici (1967) e Il porto di Toledo (1975) compie un lungo viaggio, prendendo per mano il lettore come Virgilio fa con Dante, per posare lo sguardo sulle cose che, per l’appunto, i più si rifiutano di considerare: i suoi occhi sono fatti di sdegno, dolcezza e tenerezza; mai di distacco, altezzosità oppure disprezzo.

Basti pensare al racconto, presente all’interno del Mare, intitolato La città involontaria. Qui Ortese fa visita ai ( iii e iv ) Granili, strutture che, a seguito dei bombardamenti del secondo conflitto mondiale, vennero adibite a dormitori in cui assembrare gli sfollati. Posti dove «i barometri non segnano più nessun grado, le bussole impazziscono» e all’interno dei quali «gli uomini che vi vengono incontro non possono farvi nessun male: larve di una vita in cui esistettero il vento e il sole, di questi beni non serbano quasi ricordo. Strisciano o si arrampicano o vacillano, ecco il loro modo di muoversi. Parlano molto poco, non sono più napoletani, né nessun’altra cosa». C’è soltanto buio «in questo paese della notte».

Tuttavia è il racconto d’apertura — Un paio di occhiali – a sottolineare ancor di più il divario tra chi vive al di sotto e chi al di sopra della luce. Eugenia Quaglia è una bambina miope di un povero quartiere: le mancanti diottrie non le permettono di mettere a fuoco ciò che la circonda («Fino allora era stata avvolta in una nebbia»). È quindi fortissimo il desiderio della piccola di guardare bene gli uomini, le donne, le bellezze della sua Napoli, il meraviglioso «mondo fatto da Dio». Eugenia viene accontentata per mezzo della zia Nunziata; nel momento, però, in cui inforca gli occhiali costati «ottomila lire vive vive», ha un mancamento. Quel velo sugli occhi le aveva risparmiato la realtà crudele: «Improvvisamente i balconi cominciarono a diventare tanti, duemila, centomila; i carretti con la verdura le precipitavano addosso; le voci che riempivano l’aria, i richiami, le frustate, le colpivano la testa come se fosse malata; si volse barcollando verso il cortile, e quella terribile impressione aumentò. Come un imbuto viscido il cortile, con la punta verso il cielo e i muri lebbrosi fitti di miserabili balconi; gli archi dei terranei, neri, coi lumi brillanti a cerchio intorno all’Addolorata; il selciato bianco di acqua saponata, le foglie di cavolo, i pezzi di carta, i rifiuti, e, in mezzo al cortile, quel gruppo di cristiani cenciosi e deformi, coi visi butterati dalla miseria e dalla rassegnazione».

Il Mare è il libro che causa l’allontanamento di Ortese da Napoli («Secondo la più discreta delle deduzioni, solo una compagine umana profondamente malata potrebbe tollerare, come Napoli tollera senza turbarsi, la putrefazione di un suo membro», denuncia la scrittrice) l’adorata città in cui si trasferisce con la famiglia all’età di circa 12 anni e che, offesa, dichiara di non riconoscersi in quella «selvaggia durezza» narrata. Ed è pure il libro che grida contro l’orrore, facendo comprendere che i veri morti sono in realtà coloro che non si lasciano toccare da nulla, gli indifferenti. Elio Vittorini ha definito l’autrice come carica di «pietà e trasposto». Del resto, il suo è un invito alla giustizia e all’amore; un invito da cogliere sempre per andare là, dove accadono le cose.

di Enrica Riera