Visti da vicino
La «fedeltà alla terra», cui un grande martire del Novecento ha richiamato il cristianesimo, si sviluppa anche con l’attenzione verso ciò che è basso, umile e invisibile

Guarda
dove metti i piedi

 Guarda dove metti i piedi Guarda dove  metti i piedi  QUO-061
16 marzo 2021

Sotto la superficie delle cose, e delle nostre città


Una voce dall’infanzia, richiamo materno dolce e deciso: «Guarda dove metti i piedi!». Così l’inciampo si trasforma in invito: «Guarda», apri gli occhi anche a ciò che sta sotto di te. Si tratta di un movimento innaturale, perché gli umani hanno fatto ormai loro un equilibrio che li distingue da chi procede a quattro zampe con lo sguardo a terra. Basta però un tombino, un vecchio e malmesso chiusino a pochi metri da casa, a sospendere almeno per un attimo il procedere sicuro, catturato dalle altezze. Se «il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me» riempiono l’animo del filosofo «di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente», la parola materna rompe improvvisamente l’incanto a favore di ciò che è basso. A favore di me, in realtà, e del mio andare: «Guarda dove metti i piedi!». La «fedeltà alla terra», cui un grande martire del Novecento ha richiamato il cristianesimo, inizia anche da parole come queste, per le quali non solo si prevengono molte cadute, ma sorge la curiosità e si sviluppa l’attenzione verso ciò che è basso, umile, invisibile.

Che cos’è un tombino? E dove metto i piedi? «Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale stai è suolo santo!» (Esodo 3, 5): se questa è l’eccezione — parola per momenti di rivelazione, di vertigine e di svolta — ordinariamente i nostri passi calpestano terreni cui riconosciamo scarso valore. Anche quando lascino intravvedere una qualche profondità, i vuoti che si aprono sotto di noi non promettono ciò che ci raggiunge da altri punti prospettici. I tombini non sono finestre. Tranne, forse, per il bambino che siamo stati, al quale ciò che non si vede e non si sa spalanca lo spazio dell’immaginazione. Che è sì fantasia, ma densa di realtà. Intuizione, quindi, presentimento. Sotto di noi c’è un mondo, prende forma un’altra città. Rumore di acqua che scorre, vapore che sale, specie in certe mattine d’inverno: c’è dunque vita che scorre, c’è calore. E poi un lavorio febbrile e misterioso: cantieri, scavi, gru, uomini che si calano sotto la superficie delle cose e ne riemergono diversi, voci che da laggiù rimbombano e comunicano con chi è rimasto sopra. Tubi, cavi, un groviglio di collegamenti nascosti. E quante storie, quante avventure suggeriscono laggiù vie di fuga, nascondigli di ladri o di eroi, luoghi di scampato pericolo o di tregua.

«Se non ritornerete come bambini…» (Matteo 18, 3): invito a ricevere tutto come la prima volta, a non disinnescare quell’immaginazione che è attenzione al particolare. La fotografia, specie quella di strada, ha in sé la propensione a immortalare dettagli modesti. E di istantanee si tratta, quando lo sguardo si fa recettivo persino verso ciò che i piedi calpestano. Guadagnandone pensieri forti. Che cosa c’è sotto di noi? Che cosa rende possibile e sostiene ciò che gli occhi vedono? Ciò che è meno nobile è forse ignobile? Perché mi inquieta e insieme mi attrae? Come si fa a scendere e a esplorare ciò che è nascosto e buio? Pensieri di inciampo, domande di chi cammina. Il punto è proprio questo e rivela quanto presto ci sia offerta la ricchezza di essere umani. Ci modifica la nostra strada, ci risveglia una voce che esprime cura, ci incuriosiscono cose banali. La cultura è propensione a coltivare, impegno umile che osserviamo in molti anziani, in chi sa abbassarsi e non di meno risulta sapiente.

Le nostre, le mie profondità. Come le vie di una città sono disseminate di tombini, così il mistero di chi ho di fronte si lascia intuire da innumerevoli squarci. Di aperture infatti sono disseminati i corpi: è il prodigio dei sensi, così che l’occhio altrui mi dà la percezione di ciò che il suo cuore nasconde, un respiro affannoso rende parte di ignote tensioni, rumori e parole penetrano dall’orecchio la mente, mentre pelle e palato avvertono sapori e consistenza del quotidiano. Fori, vuoti, soglie tra sopra e sotto, tra dentro e fuori. Complessa è la realtà e lo avvertiamo scoprendocene parte, vivendola senza estraniarcene. Quanto non vedo della mia città è forse maggiore di ciò che non so di me? Quel che è sepolto, oscuro, senza accesso ha ragione di venir rimosso o negato? Il bambino si fa maestro: ha paura, talvolta, ma più spesso avverte il fascino di ciò che non possiede. Nel prendervi confidenza inizia il suo viaggio. Inconsapevolmente è grato all’immensità che gli sfugge, perché se ne sente sostenuto e animato. Questa leggerezza gli fa spiccare il volo. La deve a chi è con lui, alla vita che tutto intorno continua, anche quando si perde nelle sue fantasie e gioca, imparando o riformulando le regole del mondo. La curiosità che lo spinge a scavare, a infilarsi dove non deve, a sporcarsi le mani rivela che gli è impossibile la superficialità.

Non ci basta, infatti, quel che si leva dalla crosta terrestre: ciò che appare non è mai l’intero. L’autentica verticalità comincia invece nel profondo, le vere altezze si misurano non dimenticando quel che è nascosto. Possiamo immaginarlo, un mondo in sezione. E riconoscere che basta un tombino a indicare l’oscurità che ci porta, il calore che ci sorregge, la vertigine che ci rende stabili. «Amen» si dice per esprimere certezza: «Tiene», «È proprio così». La parola della fede rinvia alla terra su cui le tribù itineranti di Israele dovevano fissare la tenda. Credere è riconoscere che regge la nostra tenda, che salde sono le nostre città, che al sicuro è la nostra vita seppur tutto si appoggi sul vuoto e su polvere, humus, oscurità. Gli umili sono grandi, perché riconciliati con le profondità e consapevoli che i sotterranei della convivenza, i cunicoli di ogni biografia, i materiali meno nobili che ci costituiscono lasciano scorrere la vita. Degli umili sono la gratitudine e il vero stupore. Essi riconoscono infatti di quale fragilità siano intrisi «il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me», perché come i piccoli hanno imparato a guardare dove mettono i piedi. Hanno colto che ogni suolo è terra santa, che ogni istante è di possibile rivelazione. Nelle profondità infatti sono stati intessuti, da chi vede e possiede anche gli abissi.

di Sergio Massironi